Verso l’incontro del 27 ottobre ad Assisi
Le ragioni della pace e l’unico Logos
di William Joseph Levada
Cardinale prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede
L’annuncio che il prossimo 27 ottobre Benedetto XVI si recherà pellegrino ad Assisi per una «Giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo» mostra che l’esperienza religiosa nelle sue diverse forme e oggetto dell’attenzione della Chiesa nel terzo millennio. Di fronte all’attuale diffusione di ateismo e agnosticismo, occorre aiutare l’uomo a salvaguardare o a ritrovare la consapevolezza del suo legame elementare (re-ligio) con l’origine da cui proviene. Questa consapevolezza, che si fa naturalmente orante, e anche una condizione della pace e della giustizia nel mondo.
Nel suo libro-intervista del 1994, il beato Giovanni Paolo II ricordava l’incontro di Assisi del 1986, affermando che esso, insieme alle sue numerose visite nei Paesi dell’Estremo Oriente, l’aveva più che mai convinto che «lo Spirito Santo opera efficacemente anche fuori dell’organismo visibile della Chiesa». Nondimeno, ben consapevole della delicatezza dell’argomento, poco dopo quell’incontro, il 7 dicembre 1990, insegnava nella sua enciclica Redemptoris missio, che lo Spirito «si manifesta in maniera particolare nella Chiesa e nei suoi membri; tuttavia, la sua presenza e azione sono universali, senza limiti ne di spazio ne di tempo». Richiamandosi al concilio Vaticano II, ricordava «l’opera dello Spirito nel cuore di ogni uomo mediante i “semi del Verbo”, nelle iniziative anche religiose, negli sforzi dell’attività umana tesi alla verità, al bene, a Dio», che prepara «a maturare in Cristo» (n. 28). Nella stessa enciclica, poi, non solo riaffermava la necessità e l’urgenza dell’annuncio della Buona Novella di Gesù, ma contrastava fortemente una «mentalità indifferentista, largamente diffusa, purtroppo, anche tra i cristiani, spesso radicata in visioni teologiche non corrette e improntata a un relativismo religioso che porta a ritenere che una religione vale l’altra» (n. 36).
In piena sintonia con questa preoccupazione vi è anche la riflessione teologica e pastorale di Joseph Ratzinger: già nel 1964 egli aveva manifestato l’intento di «definire con maggior precisione la posizione del cristianesimo nella storia delle religioni e così conferire di nuovo un senso più concreto alle enunciazioni teologiche sull’unicità e assolutezza del cristianesimo» (J. Ratzinger, Fede, Verità, Tolleranza. Il Cristianesimo e le religioni del mondo, 17). La Congregazione per la Dottrina della Fede, da lui guidata, riprenderà questo tema con la dichiarazione Dominus Iesus circa l’unicità e l’universalità di Gesù Cristo e della Chiesa. Il documento, pubblicato il 6 agosto 2000, non mirava soltanto a confutare l’idea di una coesistenza interreligiosa nella quale le varie «credenze» sarebbero riconosciute come vie complementari a quella fondamentale che è Gesù Cristo (cfr. Giovanni 14, 6); intendeva, più profondamente, gettare le basi dottrinali di una riflessione sul rapporto fra il cristianesimo e le religioni. Per la sua relazione unica con il Padre, la persona del Verbo incarnato e assolutamente unica; l’opera salvifica di Gesù Cristo che si prolunga nel suo Corpo, la Chiesa, è anch’essa assolutamente unica in ordine alla salvezza di tutti gli uomini. Ad esercitare tale opera, tanto nei cristiani quanto nei non cristiani, è sempre e solo lo Spirito di Cristo che il Padre dona alla Chiesa «sacramento di salvezza»: perciò non vi sono, in ordine alla salvezza, vie complementari all’unica economia universale del Figlio fatto carne, anche se fuori della Chiesa di Cristo si trovano elementi di verità e di bontà (cfr. Nostra aetate, 2; Ad gentes, 9).
L’incontro di Assisi ebbe una seconda edizione il 24 gennaio 2002. In quell’occasione il cardinale Ratzinger sentì il bisogno di chiarirne ulteriormente il significato, facendosi interprete di quanti si sono seriamente interrogati in proposito: «Si può fare questo? Non è che si dà alla maggior parte della gente la finta illusione di una comunanza che in realtà non esiste? Non si favorisce cosi il relativismo, l’opinione che in fondo siano solo differenze penultime quelle che si frappongono fra le «religioni»? Non s’indebolisce cosi la serietà della fede e in tal modo infine si allontana ulteriormente Dio da noi, non si rafforza il sentimento di essere lasciati soli?» (Fede, Verità, Tolleranza , 111). Il lettore potrà rifarsi alle sue puntualizzazioni, che non hanno perso di attualità. Qui vogliamo piuttosto chiederci: perché mai, se era tanto attento ai possibili fraintendimenti del gesto del suo beato predecessore, Benedetto XVI ha ritenuto opportuno recarsi pellegrino ad Assisi in occasione di un nuovo incontro per la pace e per la giustizia nel mondo? Una prima indicazione la troviamo nel ricordo del cardinale Ratzinger riguardo all’incontro del 2002. All’indomani del raduno egli evocava la figura dell’uomo vestito di bianco, ormai anziano, seduto assieme agli altri sul treno per Assisi: «Uomini e donne, che nella vita quotidiana troppo spesso si fronteggiano l’un l’altro con ostilità e sembrano divisi da barriere insormontabili, salutavano il Papa, che, con la forza della sua personalità, la profondità della sua fede, la passione che ne deriva per la pace e la riconciliazione, ha come tirato fuori l’impossibile dal carisma del suo ufficio: convocare insieme in un pellegrinaggio per la pace rappresentanti della cristianità divisa e rappresentanti di diverse religioni» («30Giorni», 1/2002). La religione ben lungi dal distogliere dall’edificazione della città terrena, spinge anzi all’impegno per essa. Per noi cristiani, ciò significa anzitutto intercedere presso Dio, lasciando che altri, pur nella loro diversità — credenti e non credenti, anch’essi invitati al prossimo incontro di Assisi — si uniscano a noi nella ricerca della pace e della giustizia nel mondo. E, aggiungeva l’allora cardinale, «se noi come cristiani intraprendiamo il cammino verso la pace sull’esempio di san Francesco, non dobbiamo temere di perdere la nostra identità: e proprio allora che la troviamo» (ibidem). Non si tratta, insomma, di nascondere la fede a vantaggio di una superficiale unita, ma di confessare — come allora Giovanni Paolo II e il Patriarca ecumenico — che la nostra pace e Cristo, e che proprio perciò il cammino della pace e il cammino della Chiesa. Il volto del «Dio della pace» (Romani 15, 33), dice ancora Joseph Ratzinger, «si e fatto visibile a noi cristiani per la fede in Cristo» (ibidem). E questa pace è una pienezza non soltanto offerta e trasmessa (cfr. Giovanni 20, 19), ma da sempre già accolta dall’«Ecclesia sancta et immaculata» (Efesini 5, 27), insieme come dono e come compito nei confronti del mondo, che è «teatro della storia del genere umano» (Gaudium et spes, 2). Ce lo ricorda il concilio Vaticano II: «Obbedendo all’ordine di Cristo e mossa dalla grazia e dalla carità dello Spirito Santo, la Chiesa si fa pienamente ed attualmente presente a tutti gli uomini e popoli per condurli con l’esempio della vita, la predicazione e i sacramenti, alla fede, alla liberta ed alla pace di Cristo» (Ad gentes, 5). Poiché «tutti gli uomini sono chiamati all’unità con Cristo» (Lumen gentium, 3), la Chiesa deve essere fermento di quest’unita per l’umanità intera: non solo con l’annuncio della Parola di Dio, ma con la testimonianza vissuta dell’intima unione dei cristiani con Dio. È questa l’autentica via della pace.
Il titolo scelto per la prossima Giornata di Assisi — Pellegrini della verità, Pellegrini della pace — ci offre una seconda indicazione: perchè si possa realisticamente sperare di costruire insieme la pace, occorre porre a criterio la verità. «L’ethos senza il logos non tiene» (J. Ratzinger, Vi ho chiamati amici. La compagnia nel cammino della fede, 71). Istruito dalle dolorose esperienze delle ideologie totalitarie, il Papa aborrisce ogni forma di subordinazione della ragione alla prassi. Ma c’e ben di più. Il legame originario tra ethos e logos, e tra religione e ragione, si radica ultimamente in Cristo, il Logos divino: proprio perciò il cristianesimo è in grado di restituire al mondo questo legame, partecipando, come segno veritiero ed efficace di Gesù Cristo, alla sua unica missione di salvezza (cfr. Lumen gentium, 9). È dunque da rifiutare decisamente «quel relativismo che incide in gradi più o meno chiari sulla dottrina della fede e della professione di fede» (Vi ho chiamati amici, 71). Ma questo, lungi dal costituire una svalutazione delle diverse espressioni religiose o della dimensione etica, ne è anzi la valorizzazione: «Dovremmo cercare di trovare una nuova pazienza — senza indifferenza — gli uni con gli altri e per gli altri; una nuova capacità di lasciar essere ciò che è altro e l’altra persona; una nuova disponibilità a differenziare i piani dell’unità e, dunque, a realizzare gli elementi di unità che sono possibili ora» (ibidem). Non è possibile la pace senza la verità e viceversa: l’attitudine alla pace costituisce un autentico «criterio di verità» (J. Ratzinger, Europa. I suoi fondamenti oggi e domani, 79).