giovedì 11 agosto 2011

Il desiderio di martirio nella donna di Assisi secondo le testimonianze duecentesche del processo di canonizzazione "Quel caso serio di cui Chiara è testimone" (Paolo Martinelli)



Il desiderio di martirio nella donna di Assisi
secondo le testimonianze duecentesche del processo di canonizzazione

Quel caso serio di cui Chiara è testimone

In occasione della memoria liturgica di santa Chiara d’Assisi, pubblichiamo alcuni stralci di una delle relazioni tenute in occasione della presentazione del libro di Giovanna Casagrande Intorno a Chiara. Il tempo della svolta. Le compagne, i monasteri, la devozione (Assisi, Edizioni Porziuncola, 2011, pagine 230, euro 25) che si è tenuta ad Assisi nella basilica intitolata alla santa.


di Paolo Martinelli
Istituto Francescano di Spiritualità Pontificia Università Antonianum

«Sora Cecilia Figliola de Messere Gualtieri Cacciaguerra da Spello, monaca del monasterio de Sancto Damiano, giurando disse: che (…) madonna Chiara era in tanto fervore de spiritu, che voluntieri voleva sostenere el martirio per amore del Signore: et questo demonstrò quando, havendo inteso che a Marrochio erano stati martirizati certi Frati, epsa diceva che ce voleva andare; unde per questo epsa testimonia pianse: et questo fo prima che così se infirmasse. Adomandata chi era stato presente ad questo, respuse che quelle che fuorono presente erano morte». Così nel processo di canonizzazione di Chiara d’Assisi è ricordato anche il suo desiderio di martirio.

Un’altra testimonianza afferma: «Sora Balvina di Messere Martino da Cocorano, monacha del monasterio de Sancto Damiamo, giurando disse: che epsa testimonia fo nel monasterio de Sancto Damiano trentasei anni et più, socto lo regimento de la sancta memoria de madonna Chiara, allora Abbadessa del predicto monasterio, la vita et conversatione de la quale lo Signore Dio la adornò de molti doni et virtù, le quale per nesuno modo se poterieno contare. Imperò che epsa madonna stecte vergine da la sua natività: intra le Sore epsa era la più humile de tucte, et haveva tanto fervore de spiritu, che voluntieri per lo amore de Dio averia portato el martirio per la defensione de la fede et de l’Ordine suo. Et prima che epsa se infirmasse desiderava de andare alle parte de Marrochio, dove se diceva che erano menati li Frati al martirio. Adomandata come sapesse le dicte cose, respuse che epsa testimonia stecte con epsa per tucto lo predicto tempo, et vedeva et udiva lo amore de la fede et de lo Ordine che haveva la predicta madonna».

Si rimane profondamente colpiti da questa testimonianza che ci narra con espressioni vivide il suo desiderio di recarsi là dove i frati protomartiri francescani avevano dato la vita fino a morire per Cristo. Colpisce il fatto che Chiara rimanga toccata nel suo intimo dalla notizia del martirio dei frati così da ospitare nel suo corpo e nella sua mente il desiderio di essere insieme a loro, sulla terra dove essi hanno versato il loro sangue, così da poter anche lei dare la vita per testimoniare e difendere la fede.

In questo desiderio di Chiara, testimoniato nel processo, si rispecchia quello di Francesco, secondo le parole di Bonaventura. Anche qui si parla di un desiderio vivo, un fervore di carità potentissimo e del medesimo desiderio di martirio di san Francesco, come si afferma al nono capitolo della Vita Beati Francisci (Legenda Maior): «L’ardente fuoco della carità lo spingeva a emulare il glorioso trionfo dei martiri santi, nei quali niente potè estinguere la fiamma dell’a m o re né indebolire la fortezza dell’animo. Acceso da quell’amore perfetto che scaccia il timore, anche egli desiderava offrirsi, ostia vivente, al Signore nella fiamma del martirio, sia per rendere contraccambio al Cristo che muore per noi, sia per provocare gli altri all’a m o re di Dio. Così, nel sesto anno dalla sua conversione, infiammato dal desiderio del martirio decise di attraversare il mare e recarsi nelle parti della Siria, per predicare la fede cristiana e la penitenza ai saraceni e agli altri infedeli».

Suggerisco in questa circostanza di accostare quanto abbiamo considerato fino ad ora con il testo della Regola non Bollata, al capitolo sedici. San Francesco d’Assisi descrive come debba essere l’atteggiamento dei frati che si recano nella terra di coloro che non hanno la fede cristiana: «I frati poi che vanno fra gli infedeli, possono comportarsi spiritualmente in mezzo a loro in due modi. Un modo è che non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani. L’altro modo è che quando vedranno che piace al Signore, annunzino la parola di Dio perché essi credano in Dio onnipotente Padre e Figlio e Spirito Santo, Creatore di tutte le cose, e nel Figlio Redentore e Salvatore, e siano battezzati, e si facciano cristiani, poiché, se uno non sarà rinato per acqua e Spirito Santo non può entrare nel regno di Dio».

Da qui si può notare che nelle due modalità indicate da Francesco non c’è una visione «anonima» della testimonianza; anche l’esempio della vita — senza annuncio esplicito della Parola — è sempre accompagnato dalla confessione della fede. Successivamente, per ispirazione del Signore si può arrivare all’annuncio esplicito della Parola al fine di suscitare la fede nella santissima Trinità.

Considerato il carattere confessante della testimonianza voluta da Francesco per i suoi frati, si può comprendere perché i più recenti studi sul desiderio di martirio presente nella famiglia francescana degli inizi, sfumano la classica contrapposizione sentita tra il capitolo sedicesimo e i racconti agiografici su questo punto: infatti l’orizzonte interpretativo non è quello di un eroismo provocatorio nei confronti di una fede diversa, quanto piuttosto espressione della stima per Cristo, la passione di comunicare l’incontro con lui e di mettersi sulla scia della sua imitazione.

In tal senso le agiografie francescane, dei protomartiri in particolare, evidenziano che in essi e negli altri martiri francescani si ripresenta ciò che avvenne nei martiri dei primi secoli, ossia la disponibilità a dare la vita per il Vangelo fino a morire.

Ciò che oggi potrebbe apparirci come un atteggiamento sconveniente nell’ambito di una relazione pacifica con religioni diverse, in realtà qui non è frutto di antagonismo religioso quanto del desiderio, della passione incontenibile per la persona di Cristo; è il desiderio di essere simile a lui e di poter in ogni modo rendere testimonianza a lui che ha dato la vita per noi; desiderio di martirio è dunque desiderio di Cristo, desiderio di corrispondere in modo totale al dono che Cristo ha fatto per noi. Dice von Balthasar nel suo famoso Cordula. Ovverosia il caso serio: «in quanto mettendo a repentaglio totale la mia vita, io attesto di aver compreso la verità cristiana come la rivelazione più alta possibile dell’amore eterno ». Il desiderio del martirio — mai provocato o ricercato direttamente — appare come espressione radicale di affetto per Cristo e di amore agli altri all’interno dell’amore di Cristo per ogni uomo e per il quale ha dato la vita.

Il martire cristiano — e prima di lui Cristo stesso — non dà la morte a nessuno con la sua morte ma espone se stesso per amore di Cristo e della libertà dell’altro a causa di ciò che gli sta più a cuore: il dono eucaristico che Cristo ha fatto di sé con il sacrificio per amore della propria vita.

Del resto la parola «martirio» indica esattamente l’essere testimoni. Vorrei in questa circostanza ricordare due espressioni potenti di Benedetto XVI nella esortazione apostolica Sacramentum caritatis in relazione alla testimonianza e al martirio.

Innanzitutto un testo che ci spiega la natura della testimonianza, evitando di confinarla in una lettura limitata alla autoreferenza biografica della persona; testimonianza è parola che per sua natura custodisce l’alterità: «Diveniamo testimoni quando, attraverso le nostre azioni, parole e modo di essere, un Altro appare e si comunica. Si può dire che la testimonianza è il mezzo con cui la verità dell’amore di Dio raggiunge l’uomo nella storia, invitandolo ad accogliere liberamente questa novità radicale. Nella testimonianza Dio si espone, per così dire, al rischio della libertà dell’uomo».

Nello stesso documento si parla poi della testimonianza e del martirio in relazione all’Eucaristia mostrando come i primi martiri cristiani hanno inteso il sacrificio della loro vita come culmine dell’esperienza spirituale, come logikè latrèia, culto spirituale, o come si dovrebbe dire: culto conveniente all’umano (Romano Penna): Gesù stesso è il testimone fedele e verace (cfr. Apocalisse , 1, 5; 3, 14); è venuto per rendere testimonianza alla verità (cfr. Giovanni, 18, 37).

La testimonianza fino al dono di se stessi, fino al martirio, è sempre stata considerata nella storia della Chiesa il culmine del nuovo culto spirituale: «Offrite i vostri corpi» (Romani, 12, 1). Si pensi, ad esempio, al racconto del martirio di san Policarpo di Smirne, discepolo di san Giovanni: tutta la drammatica vicenda è descritta come liturgia, anzi come un divenire Eucaristia del martire stesso. Pensiamo anche alla coscienza eucaristica che Ignazio di Antiochia esprime in vista del suo martirio: egli si considera «frumento di Dio» e desidera di diventare nel martirio «pane puro di Cristo». Il cristiano che offre la sua vita nel martirio entra nella piena comunione con la Pasqua di Gesù Cristo e così diviene egli stesso con Lui Eucaristia.

© L'Osservatore Romano 11 agosto 2011