mercoledì 31 agosto 2011

Papa Wojtyła esempio di paternità episcopale "Da una terra semper fidelis con il cuore del discepolo" (Marc Ouellet)



Papa Wojtyła esempio di paternità episcopale

Da una terra semper fidelis
con il cuore del discepolo

È dedicata principalmente alla figura del beato Giovanni Paolo II, quale esempio della paternità episcopale, una riflessione che il cardinale prefetto della Congregazione per i Vescovi ha tenuto di fronte a trecento presuli brasiliani riuniti nel santuario di Nostra Signora di Aparecida.


di Marc Ouellet

Al passaggio nel terzo millennio dell’era cristiana, Dio ha scelto un figlio della Polonia semper fidelis per donare alla Chiesa e al mondo una figura di santo pontefice dallo straordinario profilo. Karol Wojtyła venne chiamato da Dio nel corso dei tragici eventi della seconda guerra mondiale, quando i campi di sterminio decimavano il popolo ebraico e tanti dei testimoni che erano solidali con esso.

Edificato dall’eroico sacrificio del suo compatriota Massimiliano Kolbe, il giovane operaio dai molteplici talenti si lasciò interpellare e modellare dalla Parola di Dio. Nutrito dalla pietà mariana della sua nativa Polonia, assai presto fisso lo sguardo sulla Vergine Maria, venerata nel santuario di Jasna Gora, non lontano dalla sua casa.

In seguito, dal Trattato della vera devozione a Maria di san Luigi Maria Grignion di Montfort trasse l’ispirazione a consacrarsi totalmente alla Madre di Dio, che conduce direttamente al suo divin Figlio. Il suo motto episcopale Totus tuus esprimeva la sua totale appartenenza a «Gesù per Maria», secondo la celebre formula di quel grande maestro della spiritualità mariana.

Uomo di profondo pensiero, Karol Wojtyła si confrontò dapprima con la filosofia classica e contemporanea, in particolare attraverso lo studio della fenomenologia di Max Scheler. Spronato dal mistero della fede, venne anche a interessarsi alla mistica di san Giovanni della Croce e di suor Faustina Kowalska, di cui meditò a lungo la visione dell’amore misericordioso.

Giovane vescovo al concilio Vaticano II, colpì i suoi colleghi per la sua volontà d’imparare, per la sua apertura al rinnovamento della Chiesa e il suo contributo alla costituzione pastorale Gaudium et spes. Al ritorno in diocesi, avviò l’applicazione delle riforme conciliari, mettendo a frutto per il suo popolo gli orientamenti più importanti della Chiesa. Appassionato sostenitore dei diritti dell’uomo, monsignor Wojtyła fece fronte al regime comunista con coraggio, prudenza e determinazione. Seppe ottenere concessioni importanti in momenti difficili, come avvenne per l’edificazione di una chiesa nel quartiere operaio di Nova Huta.

Eletto al Soglio di Pietro il 16 ottobre 1978, ricevette da Dio la missione di far entrare la Chiesa nel terzo millennio, traendo per questo ispirazione dalla testimonianza dei suoi compatrioti e aprendosi sempre più lui stesso al soffio dello Spirito nella Chiesa universale.

Ricordo la sua prima uscita dal Vaticano, all’indomani del conclave, per andare a far visita all’amico monsignor Deskur, ricoverato al policlinico Gemelli. Fu quella l’occasione per una prima conferenza stampa improvvisata in un corridoio dell’ospedale. Che emozione sentirlo parlare ai malati, constatare il suo affetto per le persone sofferenti e il suo modo di unirle al suo ministero!

Questo primo gesto inatteso annunciava tutta una serie di altre iniziative nuove e soprattutto un nuovo stile di pontificato che avrebbe trasformato i rapporti della Chiesa con il mondo, nella linea del dialogo auspicato dal concilio Vaticano II.

Nessuno nella storia umana ha esercitato tanto potere di convocazione. Nel corso dei suoi ventisei anni e mezzo di pontificato, Giovanni Paolo II ha riunito folle immense d’ogni confessione. Ha annunciato la Parola di Dio alle più diverse assemblee, ma soprattutto ai poveri che riconoscevano in lui un difensore, un amico e un padre.

Dall’inizio alla fine del suo pontificato, ha sviluppato il pensiero della Chiesa sui problemi attuali, testimoniando in primo luogo la sua fede con la trilogia Redemptor hominis, Dives in misericordia e Dominum et vivificantem, testi che mostravano il radicamento e l’articolazione trinitari del suo pensiero e della sua azione.

Quando le prove dell’odio del mondo e della malattia rallentarono la sua azione, si rivolse di nuovo a Maria ai piedi della croce e ricevette la grazia di un ascendente accresciuto dall’offerta delle sue sofferenze e del suo perdono, come anche dall’esempio di pazienza e di perseveranza fino alla fine.

La celebrazione delle sue esequie, l’8 aprile 2005, resterà negli annali dell’umanità come un simbolo della missione della Chiesa: riunire l’umanità attorno a Cristo risorto al quale la spoglia mortale del santo Pontefice circondato da tutta la Chiesa rendeva un’ultima testimonianza.

Da allora, molte grazie ottenute per sua intercessione sono state rese note cosi da accelerare il processo di beatificazione concluso a Roma con la solenne celebrazione alla presenza di un milione di fedeli, senza contare la massa di persone raggiunte dai media.

Si affollano in noi i ricordi che ci restano della paterna figura di Giovanni Paolo II, che più volte ha visitato l’America Latina e il Brasile. Le sue grandi braccia aperte, che richiamano il Cristo del Corcovado, restano un magnifico simbolo della sua bontà e della sua paternità.

Cosa c’insegna questo beato pastore che Dio ha donato alla Chiesa nel passaggio al terzo millennio? Benedetto XVI lo ha sintetizzato assai bene nell’omelia della beatificazione: «Con la sua testimonianza di fede, di amore e di coraggio apostolico, accompagnata da una grande carica umana, questo esemplare figlio della Nazione polacca ha aiutato i cristiani di tutto il mondo a non avere paura di dirsi cristiani, di appartenere alla Chiesa, di parlare del Vangelo. In una parola: ci ha aiutato a non avere paura della verità, perché la verità è garanzia della libertà» (Omelia per la messa di beatificazione del beato Giovanni Paolo II, 1° maggio 2011).

L’esortazione apostolica Verbum Domini ha descritto il fondamento di questa verità che spingeva il beato Giovanni Paolo II a rendere ovunque testimonianza con audacia ed entusiasmo: «Nel Figlio, “Logos fatto carne” (cfr. Giovanni, 1, 14), venuto a compiere la volontà di Colui che l’ha mandato (cfr. Giovanni, 4, 34), Dio fonte della Rivelazione si manifesta come Padre e porta a compimento l’educazione divina dell’uomo, già in precedenza animata dalle parole dei profeti e dalle meraviglie operate nella creazione e nella storia del suo popolo e di tutti gli uomini. Il culmine della Rivelazione di Dio Padre e offerto dal Figlio con il dono del Paraclito (cfr. Giovanni, 14, 16), Spirito del Padre e del Figlio, che ci “guida a tutta la verità” (Giovanni, 16, 13)» (n. 20).

Giovanni Paolo II nutriva una grande devozione per la Vergine Maria, ma per prima cosa, come Maria, era docile allo Spirito Santo, che assicura in noi la verità dell’amore e la liberta di fronte a qualsiasi forma di oppressione.

«Tutta la verità» alla quale lo Spirito Santo conduce e la comunione dell’uomo con Dio nella Chiesa. Nella figura di Giovanni Paolo II la divina Provvidenza ha voluto che avessimo sotto gli occhi un esempio eloquente di disponibilità allo Spirito Santo che rivela il volto del Padre. Tale apertura allo Spirito Santo spiega il tratto più caratteristico di questo uomo di Dio, ossia la sua vita di preghiera personale che culminava nella celebrazione della santa Eucaristia.

Come tutti gli invitati nella sua cappella privata, l’ho visto restare inginocchiato a lungo, supplicando Dio per le necessità della Chiesa o ringraziandolo per la sua bontà e la sua misericordia. Celebrava la santa Eucaristia come se fosse la prima volta, l’ultima volta e l’unica volta. Giovanni Paolo II insegna quello che san Paolo proclama agli Efesini: «Per questo, dico, io piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome, perche vi conceda, secondo la ricchezza della sua gloria, di essere potentemente rafforzati dal suo Spirito nell’uomo interiore. Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio» (Efesini, 3, 14-19).

Con l’ampiezza e la profondità della sua fecondità spirituale, Giovanni Paolo II pone in evidenza il mistero della paternità divina. Quanti santi e sante, che egli ha elevato all’onore degli altari, rendono omaggio a questa paternità divina di cui e stato un’immagine tanto eloquente! Dio, ricco di misericordia, effonde l’amore di Cristo nei cuori con la potenza del suo Spirito, invitando pastori e fedeli all’adorazione, all’amore reciproco e alla testimonianza di una vita santa.

Giovanni Paolo II è stato un pastore duramente messo alla prova nel corso del suo lungo pontificato. La sua figura di uomo sofferente rimanda alla visione dell’Agnello-Pastore dell’Apocalisse. L’Agnello simboleggia Cristo immolato, la cui suprema testimonianza d’amore «toglie i peccati del mondo». Alla sua vista, uno degli Anziani proclama: «Non avranno più fame, ne avranno più sete (…) perche l’Agnello che sta in mezzo al trono sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita» (Apocalisse 7, 16-17).

«L’Agnello sarà il loro pastore». Che mistero ineffabile si nasconde in questa espressione paradossale! Non è l’Agnello a lasciarsi guidare? Ebbene, e proprio in questo atteggiamento che Cristo Pastore rivela il Padre che lo guida con tutte le pecore ch’Egli gli ha donato. Non è l’Agnello un simbolo di dolcezza, d’innocenza e persino di debolezza, soprattutto quando viene condotto al macello? Eppure e là, nell’estremo abbassamento del suo amore, fino alla sua umile forma eucaristica, che l’Agnello immolato e vincitore è il Pastore delle pecore. È là che le attira tutte a se, che chiama ciascuna per nome e le conduce ai verdi pascoli e alle fonti d’acqua viva.

Il munus regendi del vescovo, l’autorità pastorale con la quale governa il suo gregge, non trae la sua forza di persuasione da questo amore kenotico con il quale nutre il suo popolo in ogni Eucaristia?

L’esortazione apostolica Pastores gregis ricorda a tale proposito che la configurazione del vescovo a Cristo crocifisso accresce la fecondità del suo ministero: «Nessun Vescovo può ignorare che il vertice della santità rimane Cristo Crocifisso, nella sua suprema donazione al Padre e ai fratelli nello Spirito Santo. Per questo la configurazione a Cristo e la partecipazione alle sue sofferenze (cfr. 1 Pietro, 4, 13) diventa la via regale della santità del Vescovo in mezzo al suo popolo» (n. 13).

Il 19 marzo 2009, Papa Benedetto XVI ha proposto come esempio, in modo inedito, la paternità di san Giuseppe ai vescovi e ai sacerdoti riuniti nella basilica minore di Maria Regina degli Apostoli: «Essere padre è innanzitutto essere servitore della vita e della crescita. San Giuseppe ha dato prova, in questo senso, di una grande dedizione. Per Cristo ha conosciuto la persecuzione, l’esilio e la povertà che ne deriva. Questa paternità voi dovete viverla nel vostro ministero quotidiano (…) In effetti, la Costituzione conciliare Lumen gentium sottolinea: i sacerdoti “abbiano poi cura, come padri in Cristo, dei fedeli che hanno spiritualmente generato col battesimo e l’insegnamento” ».

Giovanni Paolo II ha insegnato ai sacerdoti che il carisma del celibato appartiene a questa dimensione paterna del sacerdozio. Ne dava testimonianza nella sua prima Lettera per il Giovedì Santo, nel 1979: «Il Sacerdote, attraverso il suo celibato, diventa l’“uomo per gli altri” (…) rinunciando a questa paternità ch’è propria degli sposi, cerca un’altra paternità e quasi addirittura un’altra maternità, ricordando le parole dell’Apostolo circa i figli, che egli genera nel dolore (cfr. 1 Corinti, 4, 15; Galati, 4, 19). Sono essi figli del suo spirito, uomini affidati dal buon Pastore alla sua sollecitudine. Questi uomini sono molti, più numerosi di quanti ne possa abbracciare una semplice famiglia umana» (n. 8).

Un ministero episcopale generoso, condotto con cuore di discepolo come quello di Giovanni Paolo II, produce molti frutti di evangelizzazione e di edificazione della Chiesa. Benedetto XVI dichiarava nella messa di beatificazione: «La beatitudine eterna di Giovanni Paolo II, che oggi la Chiesa ha la gioia di proclamare, sta tutta dentro queste parole di Cristo: “Beato sei tu, Simone” e “Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto! ”. La beatitudine della fede, che anche Giovanni Paolo II ha ricevuto in dono da Dio Padre, per l’edificazione della Chiesa di Cristo». «Vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi» (1 Giovanni, 1, 2). Identificandoci con il movimento vitale del Figlio verso il Padre, praticando l’amore fraterno e la carità pastorale, otteniamo con lui lo Spirito del Padre che conferma in noi la santità sotto il profilo di un’autentica paternità («Molto antica è la tradizione che presenta il Vescovo come immagine del Padre, il quale, secondo quanto scriveva sant’Ignazio di Antiochia, e come il Vescovo invisibile, il Vescovo di tutti. Ogni Vescovo, di conseguenza, tiene il posto del Padre di Gesù Cristo sicché, proprio in relazione a questa rappresentanza, egli dev’essere da tutti riverito», Pastores gregis, n. 7). Ecco allora che la pienezza del sacerdozio nel vescovo si realizza nella misura in cui le due forme, filiale e paterna, del sacerdozio restano vive in lui e diventano fonte di vita divina nelle anime.

Dio, che è in se stesso «Amore» tre volte fecondo, prolunga la sua fecondità nel suo rapporto nuziale con l’umanità eletta e riscattata in Gesù Cristo. La Chiesa e il dispiegarsi della fecondità trinitaria nella storia, grazie alla proclamazione della Parola di Dio che genera la fede fino all’espressione sacramentale e nuziale della Chiesa. Come abbiamo visto, il ministero episcopale e sacerdotale e un’articolazione essenziale di questa fecondità, alla quale risponde la comunità battesimale e in modo del tutto particolare ogni forma di vita consacrata.

Il vescovo presiede all’unità di tutto questo dispiegarsi di fecondità trinitaria, in comunione con il collegio apostolico e sotto il primato magisteriale e pastorale del successore di Pietro. La forza e l’efficacia della sua testimonianza dipendono in larga misura dai vincoli di comunione con i suoi pari, che confermano e rafforzano i vincoli con il suo popolo particolare. Il Buon Pastore dà la vita per le sue pecore. Attraverso questo dono fino all’immolazione, manifesta la sua docilità allo Spirito Santo che conduce il suo gregge a tutta la verità e lo conserva nell’unita. Pastori e fedeli restano nell’unita camminando nella luce dell’amore, rispondendo cosi alla preghiera di Cristo: «Perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Giovanni, 17, 21).

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© L'Osservatore Romano 31 agosto 2011