venerdì 1 ottobre 2010

La Chiesa in Amazzonia voce in difesa degli indios, di Nicola Gori


Intervista a monsignor Mário Pasqualotto,
presidente della Conferenza episcopale regionale Norte1 del Brasile

La Chiesa in Amazzonia
voce in difesa degli indios

di Nicola Gori

È un prezzo molto alto quello che la Chiesa cattolica in Amazzonia è costretta a pagare per essere la voce degli indios e la loro difesa. Sacerdoti e vescovi continuano a rischiare ogni giorno di persona, a subire gravissime ritorsioni perché non smettono di denunciare le prevaricazioni dei potenti di turno contro le popolazioni indigene e lo scempio che si compie dell'habitat in cui vivono, al solo scopo di favorire interessi di speculatori senza scrupoli. È un impegno gravoso per i sacerdoti che svolgono la loro missione in questo Stato immenso, che ha una superficie di più di millecinquecento chilometri quadrati ed è il territorio più esteso del Brasile. Ne abbiamo parlato in questa intervista con monsignor Mário Pasqualotto, vescovo ausiliare di Manaus e presidente della Conferenza episcopale regionale norte 1, in questi giorni in visita ad limina Apostolorum.

Quali sono le maggiori difficoltà che incontra la Chiesa in Amazzonia?

La prima difficoltà è costituita dalla vastità dell'Amazzonia. È difficile coprirla tutta, anche perché le strade sono pochissime e le gente vive in piccole comunità sparse lungo i fiumi. Ma anche i riberinhos, cioè i coloni che vivono sulle rive del fiume, pur essendo tra i più vicini a importanti vie di comunicazione come possono essere i fiumi, sono lontani dai centri abitati. Ci sono intere popolazioni di indios che vivono in zone interne molto difficili da raggiungere. Mancando le strade l'unica via di comunicazione è il fiume. Io ho lavorato come missionario in una tribù di indios e quando dovevo raggiungerli ero costretto a viaggiare molte ore in barca. Un lavoro enorme, dunque, per la nostra Conferenza episcopale regionale. A ciò si deve aggiungere la difficoltà della lingua. Per esempio nella diocesi di São Gabriel da Cachoeira, nel Rio Negro, o anche a Tabatinga, nel Rio Solimões, la maggior parte della popolazione è indigena ed è divisa in varie tribù, ognuna delle quali ha dialetti e tradizioni culturali diverse.

Come superate queste difficoltà?

Puntiamo molto sulla formazione. Per preparare gli operatori, da diversi anni abbiamo avviato seminari di teologia indigena. Abbiamo poi istituito il Consiglio indigeno missionario (Cimi), un'organismo che lavora a livello nazionale ed è presieduto da un vescovo responsabile. Il Cimi organizza incontri tra chi opera con gli indios, per uno scambio di esperienze, e promuove corsi di formazione.

E per gli indios che si trasferiscono nelle città?

È una realtà che riguarda soprattutto Manaus, proprio la capitale dell'Amazzonia. Abbiamo promosso la pastorale indigena urbana che è molto complessa da portare avanti, perché gli indios che si trasferiscono in città tendono a nascondersi e non è facile riconoscerli e contattarli. Si vergognano a farsi vedere, perché c'è ancora chi li considera incivili.

E la Chiesa?

Siamo consapevoli della sfida che ci attende e l'affrontiamo molto seriamente. La pastorale per gli indios è la nostra risposta concreta. Quest'opera coinvolge tutte le 57 diocesi dell'Amazzonia e interessa sei Stati brasiliani. In particolare un'area molto vasta dell'Amazzonia che richiede un'attenzione particolare poiché gli indios sono la maggioranza. Credo che per loro la Chiesa sia qualcosa di molto importante: li protegge, li difende, in sostanza è la loro voce. Quando, per esempio, in Roraima e stata fissata sulle mappe la riserva per gli indios, la Chiesa si è impegnata attivamente perché fosse riconosciuta a livello nazionale. E per questo la Chiesa è stata perseguitata. I grandi fazenderos, in particolare gli arrozeiros, quelli che coltivano il riso, si sono opposti ferocemente. Solo due anni fa il problema è stato risolto definitivamente, dal presidente Lula, che ha firmato il decreto istitutivo della riserva indigena e obbligato i fazenderos ad uscire da quel territorio.

La Chiesa ha più volte denunciato il fatto che la devastazione causata da certe operazioni non solo mette a rischio la sopravvivenza degli indios ma provoca anche danni notevoli dal punto di vista ambientale.

La Chiesa continua a levare alta la sua voce contro quanti distruggono l'ambiente per il proprio tornaconto. Nella provincia di Manaus ci sono molti fiumi, quindi è difficile costruire strade, ma negli Stati vicini - Paranà, Rondonia e Acre tanto per fare degli esempi - distruggono tutto. La Chiesa si oppone a questo scempio e per questo alcuni vescovi sono stati minacciati di morte. Basti ricordare il vescovo Erwin Kräutler, presidente del Cimi, che deve muoversi con due guardie del corpo.

Come riuscite a contemperare le esigenze del Vangelo con la religiosità tradizionale o, più in generale, con la cultura degli indios?

Qualcuno ha accusato la Chiesa di voler cancellare le loro tradizioni; invece, è il contrario, L'esperienza che io ho è che sono proprio i missionari a preservare le tradizioni e la cultura delle popolazioni indigene. In una missione del Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime), per esempio, c'era una scuola per bambini che impartiva lezioni sia in lingua portoghese, sia in lingua locale. Devo dire che gli indios accolgono molto bene il messaggio del Vangelo, anche se talvolta si approfittano un po' di chi li aiuta.

Qual è il sostegno che viene alla Chiesa locale dalle congregazioni missionarie e qual è il rapporto tra l'episcopato e questi istituti?

Guardando alla storia dell'evangelizzazione di queste terre, dobbiamo riconoscere il grande merito delle congregazioni religiose. C'è un rapporto molto bello tra missionari e diocesi, perché noi dipendiamo di fatto dall'aiuto fornito proprio dalle congregazioni religiose. Ricordo che le diocesi del nord del Paese sono state fondate da religiosi. Anche a Manaus sono presenti vari ordini religiosi, perché hanno la casa di procura in città e si spostano in missione nei territori circostanti. I salesiani, per esempio, operano nel Rio Negro, i cappuccini nel Rio Solimões, il Pime nella Baixa Amazônia. Anche la stessa Manaus è stata evangelizzata da missionari appartenenti a queste congregazioni. Ancora nella nostra diocesi oggi abbiamo solo 27 sacerdoti diocesani, rispetto a 120 sacerdoti religiosi. Purtroppo, negli ultimi tempi i membri di questi istituti stanno invecchiando e quindi non possono più sostenere lo sforzo missionario di una volta. Per noi è un problema, perché non abbiamo ancora un clero locale sufficiente. A Manaus, che conta più di due milioni di abitanti, vi sono parrocchie senza parroco e non riusciamo a evangelizzare adeguatamente la periferia della città. La nostra speranza è la presenza di laici maturi nella fede e il contributo di molte religiose che prestano servizio nelle nostre diocesi.

Nella vostra regione sono attive varie comunità cristiane protestanti. Ciò comporta l'instaurarsi di un dialogo ecumenico?

Ci sono molte difficoltà nel dialogo, perché i protestanti che operano nelle nostre regioni, non appartengono alle comunità tradizionali, quali per esempio gli anglicani e i luterani, ma in genere provengono da comunità pentecostali. Molte sono quasi sette. Basti pensare che in Brasile ci sono più di 3.000 nuove comunità protestanti e ne crescono di nuove ogni giorno. È difficile collaborare con loro e fare campagna di evangelizzazione insieme. Direi anzi che c'è una certa ostilità nei confronti della Chiesa cattolica e viene fatta molta propaganda contro di noi. È una sfida continua, perché nelle grandi città crescono molto in fretta le favelas e noi non arriviamo in tempo ad annunciare il Vangelo. Le sette protestanti arrivano molto prima.

Cosa rappresenta Manaus con il suo privilegio di essere porto franco?

Intanto questa situazione è causa dell'acuirsi del contrasto tra ricchi e poveri. È scandaloso l'abisso esistente tra i ricchi e la maggior parte dei poveri che vivono in questa città, quinta del Brasile per reddito pro capite. Conta circa 500 industrie, eppure ci sono situazioni di gravi disuguaglianze. Gli operai non sono pagati sufficientemente e gli unici vantaggi sono per i grandi gruppi industriali: tra l'altro si tratta di multinazionali, per cui le ricchezze finiscono comunque fuori dal Brasile.

(©L'Osservatore Romano - 2 ottobre 2010)