sabato 27 novembre 2010

Il 28 novembre il gesuita Roberto Busa compie 97 anni di Stefano Lorenzetto


Il 28 novembre il gesuita Roberto Busa compie 97 anni

Ibm?
International Busa machines

Al computer nato per far di conto ha insegnato l'arte della scrittura


di Stefano Lorenzetto

Ora che sta per compiere 97 anni, l'uomo che insegnò ai computer l'arte della scrittura non è più capace di ragionare in frazioni di millisecondo. A ogni domanda si porta le mani giunte davanti alla bocca, guarda verso l'infinito, medita a lungo. Ma la sua mente obbedisce ancora al linguaggio binario, perché articola ogni risposta per punti, dicendo "primo", poi "secondo", mai "terzo", e intanto conta sulle dita partendo dal mignolo per arrivare al pollice, come fanno gli americani. Non c'è una parola, fra quelle che gli escono dalle labbra, che sia superflua o pronunciata a casaccio.

Se esiste una santità tecnologica, credo d'averla incontrata: ha il volto di padre Roberto Busa, gesuita. Perciò inginòcchiati anche tu, lettore, davanti a questo vecchio prete, linguista, filosofo e informatico, che ebbe per compagno di seminario Albino Luciani, il futuro Giovanni Paolo i. Se navighi in Internet, lo devi a lui. Se saltabecchi da un sito all'altro cliccando sui link sottolineati di colore blu, lo devi a lui. Se usi il pc per scrivere mail e documenti di testo, lo devi a lui. Se puoi leggere questo articolo, lo devi, lo dobbiamo, a lui.

Era nato solo per far di conto, il computer, dall'inglese to compute, calcolare, computare. Ma padre Busa gli insufflò nelle narici il dono della parola. Accadde nel 1949. Il gesuita s'era messo in mente di analizzare l'opera omnia di san Tommaso: 1,5 milioni di righe, 9 milioni di parole (contro le appena 100.000 della Divina Commedia). Aveva già compilato a mano 10.000 schede solo per inventariare la preposizione "in", che egli giudicava portante dal punto di vista filosofico. Cercava, senza trovarlo, un modo per mettere in connessione i singoli frammenti del pensiero dell'Aquinate e per confrontarli con altre fonti.

In viaggio negli Stati Uniti, chiese udienza a Thomas Watson, fondatore dell'Ibm. Il vecchio magnate lo ricevette nel suo ufficio di New York. Nell'ascoltare la richiesta del sacerdote italiano, scosse la testa: "Non è possibile far eseguire alle macchine quello che mi sta chiedendo. Lei pretende d'essere più americano di noi". Padre Busa allora estrasse dalla tasca un cartellino trovato su una scrivania, recante il motto della multinazionale coniato dal boss - Think ("pensa") - e la frase "Il difficile lo facciamo subito, l'impossibile richiede un po' più di tempo". Lo restituì a Watson con un moto di delusione. Il presidente dell'Ibm, punto sul vivo, ribatté: "E va bene, padre. Ci proveremo. Ma a una condizione: mi prometta che lei non cambierà Ibm, acronimo di International business machines, in International Busa machines".

È da questa sfida fra due geni che nacque l'ipertesto, quell'insieme strutturato di informazioni unite fra loro da collegamenti dinamici consultabili sul computer con un colpo di mouse. Me lo conferma Alberto Cavicchiolo, psicanalista, tra i fondatori di Spirali, la casa editrice di padre Busa che ha pubblicato tra gli altri il libro Quodlibet. Briciole del mio mulino. Spiega Cavicchiolo, uno degli amici più vicini al pensatore della Compagnia di Gesù: "Il termine hypertext fu coniato da Ted Nelson nel 1965 per ipotizzare un sistema software in grado di memorizzare i percorsi compiuti da un lettore. Per ammissione dello stesso autore di Literary Machines, l'idea risaliva però a prima dell'invenzione del computer. E come ha ben documentato Antonio Zoppetti, studioso di linguistica e informatica, chi davvero operò sull'ipertesto, con almeno 15 anni d'anticipo su Nelson, fu proprio padre Busa".

Insomma, il gesuita prossimo al secolo di vita incarna il primo esempio documentabile nella storia dell'uomo di utilizzo del computer per l'analisi linguistica. I suoi esperimenti, ai quali fece in tempo ad assistere padre Agostino Gemelli, il fondatore dell'Università Cattolica ridotto in sedia a rotelle, hanno trovato compimento nell'Index Thomisticus che padre Busa ha realizzato fra Pisa, Boulder (Colorado) e Venezia, un'impresa titanica che ha richiesto 1,8 milioni di ore, grosso modo il lavoro di un uomo per 1.000 anni a orario sindacale, e che oggi è disponibile su Cd-rom e su carta: occupa 56 volumi, per un totale di 70.000 pagine. A partire dal primo tomo, uscito nel 1951, il religioso ha catalogato tutte le parole contenute nei 118 libri di san Tommaso e di altri 61 autori.

Non c'è congresso scientifico o comunità accademica al mondo dove, all'udire il nome di padre Busa, non ci si alzi rispettosamente in piedi. La sua ultima creatura è stato un consorzio tra sei università (Sapienza, Gregoriana, Salesiani, Domenicani, Opus Dei, Servi di Maria, Laterano) per la creazione del lessico tomistico biculturale, patrocinato dall'ex governatore della Banca d'Italia, Antonio Fazio, grande cultore di san Tommaso, e da Hans Tietmeyer e Michel Camdessus, ex presidenti della Deutsche Bundesbank e del Fondo monetario internazionale. Una sua ammiratrice, Francesca Bruni, presidente di Art Valley, istituto che promuove lo scambio tra arte e tecnologie, ha lanciato su Facebook un gruppo al quale si sono subito iscritti oltre 150 studiosi di tutto il mondo.

Dal 1995 al 2000 padre Busa ha insegnato al Politecnico di Milano nei corsi di intelligenza artificiale e robotica. In precedenza era stato per lunghi anni docente alla Pontificia Università Gregoriana e alla Cattolica. Adesso vive ritirato all'Aloisianum, un monumentale istituto di Gallarate, dove pure ha insegnato, donato ai gesuiti negli anni Trenta dalla contessa Rosa Piantanida Bassetti Ottolini, la fondatrice dell'omonima industria tessile che padre Busa conobbe personalmente. Nella casa di riposo per anziani sacerdoti è ospitato anche uno dei più cari amici dello studioso quasi centenario: il cardinale Carlo Maria Martini, già arcivescovo di Milano.

Se dovesse stendere una voce enciclopedica su padre Roberto Busa, che cosa scriverebbe?

Quante righe?

Cinque, dieci. Decida lei.

Facciamo una sola: "Pioniere dell'informatica linguistica". L'informatica era stata concepita per i numeri. Io ho pensato di applicarla alle parole.

Almeno aggiungiamo dov'è nato.

A Vicenza. Ma siamo originari di Lusiana, sull'altopiano di Asiago, più precisamente della contrada Busa, donde il cognome. Mio padre era capostazione. Ci trasferivamo da una città all'altra: Genova, Bolzano, Verona. Nel 1928 approdammo a Belluno e lì entrai in seminario. Ero in classe con Albino Luciani. In camerata il mio era l'ultimo letto della fila, dopo quelli di Albino e di Dante Cassoli. Niente riscaldamento. Sveglia alle 5.30. Ai piedi del letto c'era il catino con la brocca. Dovevamo rompere l'acqua ghiacciata. In quei cinque minuti perdevo la vocazione. Dicevo fra me: no, l'acqua gelata no, voglio tornare dalla mamma che me la scalda sulla stufa. Mezz'ora per lavarci, vestirci e rifare il giaciglio. Albino se la sbrigava in 10 minuti e impiegava gli altri 20 a leggere le opere devozionali di Jean Croiset, gesuita francese del Seicento, e le commedie di Carlo Goldoni.

L'unico dei sette pontefici della sua vita al quale abbia potuto dare del tu.

Fino all'ultimo. Confidenza che non mi sarei mai permesso con Papa Montini e Papa Wojtyla, nonostante i nostri contatti frequenti e cordiali. All'elezione di Giovanni Paolo i i giornali scrissero che era stato scelto un parroco di campagna. Pensai: ve ne accorgerete quando tirerà fuori le unghie. Purtroppo il Signore ce l'ha lasciato solo per 33 giorni. Lo sa che don Albino m'invidiava?.

La invidiava?

Sì, perché io ero diventato gesuita e lui no. Avrebbe voluto fare il missionario come i primi compagni di sant'Ignazio di Loyola. Ma il vescovo Giosuè Cattarossi non glielo permise. A dire il vero anch'io, dopo essere diventato gesuita, sognavo di partire per l'India. Invece il superiore provinciale mi chiese a bruciapelo: "Le piacerebbe fare il professore?". No, risposi. E lui: "Ottimo. Lo farà lo stesso". Fui spedito alla Gregoriana per una libera docenza in filosofia su san Tommaso d'Aquino.

E se invece il suo vescovo l'avesse mandata a fare il curato in un paesino di montagna, ci sarebbe andato volentieri?

Certamente. Fu come se mi fosse stato impartito l'avanti marsc'! Il militare riceve l'ordine di raggiungere Roma e poi, arrivato nella capitale, segna il passo in attesa di nuove disposizioni. Così è stato per me: mi hanno ordinato di studiare san Tommaso, sono partito e non ho più smesso.

Che cos'ha di speciale la figura di questo dottore della Chiesa?

San Tommaso è il riassunto della civiltà cristiana. Non a caso ho dovuto lavorare su 20 milioni di parole sue e di altri autori, in 18 lingue che adoperano 8 diversi alfabeti.

Immagino che lei sia poliglotta.

Sa che non me lo ricordo più? Sui miei temi, oltre che in italiano, latino, greco ed ebraico, posso senz'altro improvvisare anche in francese, inglese, spagnolo, tedesco. Mi sono dovuto arrangiare con i rotoli di Qumrân, che sono scritti in ebraico, aramaico e nabateo, con tutto il Corano in arabo, col cirillico, col finnico, col boemo, col georgiano, con l'albanese. A volte mi lamento col mio Principale, dicendogli: Signore, sembra che tu abbia concepito il mondo come un'aula d'esame. E Lui mi risponde: "Ho lasciato che gli uomini facessero ciò che vogliono. Se fanno il bene, avranno il bene; se fanno il male, avranno il male".

Come le venne l'idea di trascinare in quest'avventura l'Ibm, creando le premesse per la creazione dei collegamenti ipertestuali che oggi sono alla base del Web?

Lucia Crespi Ferrario, proprietaria della tintoria Giovanni Crespi di Busto Arsizio, volle regalare al figlio Giulio, quindicenne, un viaggio di quattro mesi negli Stati Uniti. Mi chiese se fossi disposto ad accompagnare il ragazzo. Accettai. E là decisi d'interpellare Watson. Il primo passo della nostra collaborazione fu creare un archivio di 12 milioni di schede perforate, che riempirono una fila di armadi lunga 90 metri per un peso complessivo di 500 tonnellate. Pensi che a quei tempi un elaboratore Ibm impiegava un'ora per mettere in ordine alfabetico 20.000 parole, una velocità che oggi fa sorridere. Il secondo passo furono i nastri magnetici, un gregge piuttosto difficile da pascere: ne avevo 1.800, che uniti fra loro raggiungevano i 1.500 chilometri. Infine sono giunto al Cd-rom e ai 56 volumi dell'Index Thomisticus. La vita è un safari: si sa da dove si parte, ma non che cosa s'incontrerà.

Qual è il senso di un'analisi linguistica sull'opera omnia di san Tommaso?

La critica del pensiero si fa dal suo interno. Non bisogna confutare un libro, ma analizzare se quello che dice è coerente con la logica di cui si serve per dirlo. In tutti questi anni mi sono passate accanto migliaia di persone, diverse per lingua, colore della pelle, età, religione, cultura, eppure mai quella logica, intravista fin dall'inizio, ha mostrato crepe. Nel poco tempo libero ho applicato lo stesso metodo anche a Jacques Monod e a Stephen Hawking. Fui persino invitato a Mosca per lavorare sui testi di Lenin. La logica ci è stata donata per arrivare a comprendere il perché di ogni cosa. Come mai nel vocabolario dell'umanità, a ogni latitudine, figurano le parole "prima" e "sempre"? Io ci leggo la storia delle anime nel fluire del tempo. Dall'eternità verso l'eternità. Si arriva alla logica come prima luce dell'anima. Ci ho riflettuto molto dopo che un artigiano mi disse questa frase: "La maggior parte delle persone non sa dove va, ma ci sta andando di corsa".

Fosse nato mille anni fa sarebbe diventato un amanuense, l'avrebbero messa a scrivere codici miniati.

Il mio mulino sono io. Neanche Dio, che pure ha inventato padre Busa, può affermare d'essere padre Busa. Ogni uomo è una macchina che elabora informazioni per tutto il corso della vita. Nasciamo senza saperlo né volerlo in un corpo che è un mulinare di materia cosmica in continuo cambiamento, soggetta alle modificazioni ambientali. Dentro questo corpo si sveglia la coscienza dell'io, che comincia a manovrare qualche leva e impara a cimentarsi in quella corsa a ostacoli che è il vivere di ciascuno.

La vista di un moderno computer che cosa le fa venire in mente?

I miei antenati agricoltori e boscaioli che per generazioni hanno faticato sulla terra.

Che cosa pensa di Internet?

Primo: ne penso un gran bene. Secondo: non lo uso per pigrizia. Lascio che lo faccia per me questa signora. (Indica con un sorriso Danila Cairati Del Bianco, sua segretaria).

Una decina d'anni fa lei dichiarò: "Dio guarda ai computer come un nonno guarda ai nipotini". Lo crede ancora?

Il paragone è riduttivo ai limiti dell'insolenza. Una mente che sappia scrivere programmi è certamente intelligente. Ma una mente che sappia scrivere programmi i quali ne scrivano altri si situa a un livello superiore di intelligenza. Il cosmo non è che un gigantesco computer. Il Programmatore ne è anche l'autore e il produttore. Noi Dio lo chiamiamo Mistero perché nei circuiti dell'affaccendarsi quotidiano non riusciamo a incontrarlo. Ma i Vangeli ci assicurano che duemila anni fa scese dal cielo.

Perché l'uomo moderno ha quasi completamente smarrito la dimensione verticale, guarda solo all'oggi, senza alcuna prospettiva di eternità?

Un po' difficile come domanda. In termini banali direi: per stupidità. Le vie del cielo sono un salire e non un lasciarsi andare.

Il peccato peggiore qual è?

La superbia.

Non la vanità?

La vanità è una bambinata.

Nella vita ha più pregato o più studiato?

Direi più studiato.

E si sente in colpa per questo?

No, proprio no.

Come s'immagina il paradiso?

Come il cuore di Dio. Immenso. Guardi che aspetto anche lei in paradiso, mi raccomando. (Si volta verso il fotografo). Anche lei. E se tardate, come mi auguro, mi troverete seduto sulla porta così. (Incrocia le mani e comincia a girarsi i pollici). Non arrivano mai, quei macachi.

(©L'Osservatore Romano - 28 novembre 2010)