Nel trentesimo anniversario della Comece
Il cristianesimo
per ricostruire l'Europa
"Modellare l'Europa del futuro" è il tema della tavola rotonda organizzata, nella sera di mercoledì 24, a Bruxelles, dalla Commissione degli episcopati della Comunità europea (Comece) in apertura dell'assemblea plenaria d'autunno (24-26 novembre) e nel trentesimo anniversario di fondazione. All'incontro, aperto dal presidente della Comece, Adrianus Herman van Luyn, vescovo di Rotterdam, hanno preso parte Jacques Delors, presidente della Commissione dell'Unione europea dal 1985 al 1994, il cardinale arcivescovo di Monaco e Frisinga nonché vicepresidente della Comece, Reinhard Marx, e l'arcivescovo presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, del cui intervento pubblichiamo ampi stralci.
di Rino Fisichella
Quanto vedo personalmente all'orizzonte è l'esigenza di creare un modello d'umanesimo capace di compiere la necessaria sintesi tra quanto è frutto della conquista dei secoli precedenti e la sensibilità con la quale interpretiamo il nostro presente. Per alcuni versi vorrei vedere all'orizzonte un "neoumanesimo". L'umanesimo, infatti, segnò a suo tempo un autentico entusiasmo che investì tutti gli ambiti dell'attività umana. Non fu una visione frammentaria del mondo, ma unitaria; così come unitaria era la lettura dell'uomo che era stato posto al centro del creato. In questa fase, che si estese dalla filosofia alla letteratura, dall'arte alla scoperta di nuove terre, Dio non era escluso, ma diventava l'orizzonte di senso della ricerca personale e della vita sociale.
(©L'Osservatore Romano - 26 novembre 2010)
di Rino Fisichella
La storia dell'Europa non inizia con i trattati di Roma del 1950. La condivisione delle risorse come il carbone e l'acciaio, l'Euratom, il mercato comune, la moneta unica sono solo tappe di un processo che deve guardare oltre gli strumenti per cogliere il senso sotteso e l'obiettivo da raggiungere. Questo dovrebbe essere l'unità riconquistata di popoli che pur nella diversità delle tradizioni e delle proprie storie hanno una matrice comune che è riconducibile al cristianesimo. L'opera geniale di Leone Magno e la sua capacità, nella crisi dell'impero, di far comprendere alle nuove popolazioni "barbare" la ricchezza della tradizione romana, farla convivere con la loro cultura, giungendo a una sintesi impensabile fu un'opera di grande spessore politico tanto quanto l'azione di Gregorio Magno nell'inviare i monaci come evangelizzatori fino ai Paesi nordici. La stessa opera fu svolta dai monaci Cirillo e Metodio che Papa Giovanni VIII aveva inviato nell'880 a evangelizzare le terre di Oriente; svolsero un'azione culturale incredibile giungendo a inventare perfino l'alfabeto che permane fino ai nostri giorni. Questi fatti permettono d'affermare che l'unità nella diversità era reale perché poggiava sul fondamento della fede cristiana.
Questi valori realizzati con fatica, perché composti di una sintesi tra il pensiero greco e romano riletto alla luce della sacra Scrittura, in questi ultimi secoli si sono ossidati e rischiano di essere sottoposti a uno struggente logorio non per il passare degli anni, ma per la corrosione di fenomeni culturali e legislativi che minano il tessuto sociale. Avere spalancato le porte a presunti diritti non ha portato a maggior coesione sociale né tanto meno a un crescente senso di responsabilità. Ciò che è dato verificare, piuttosto, è un preoccupante rinchiudersi in un individualismo senza sbocco che, presto o tardi, porterà all'asfissia dei singoli e della società. L'Europa d'oggi, d'altronde, sembra vivere con una profonda paura. Essa diviene quasi congenita presso popolazioni che avevano vissuto un lungo periodo di ricostruzione dopo la barbarie di due guerre, di crescente benessere e di pace; vacillano molte certezze perché, forse, raggiunte con troppa fretta e senza la dovuta perspicacia. La sicurezza del lavoro, l'assistenza nella malattia, la casa, la pensione... insomma, ciò che si conosce sotto il nome di progresso sociale tutto si sbriciola sotto la scure di una crisi che non lascia spazio se non all'incertezza, al dubbio e quindi alla paura e all'angoscia. In che modo si potrà uscire da questo tunnel che non è solo d'ordine economico e finanziario, ma primariamente culturale e in modo ancora più specifico antropologico, è facile affermarlo, ma più complesso poterlo realizzare.
Quanto vedo personalmente all'orizzonte è l'esigenza di creare un modello d'umanesimo capace di compiere la necessaria sintesi tra quanto è frutto della conquista dei secoli precedenti e la sensibilità con la quale interpretiamo il nostro presente. Per alcuni versi vorrei vedere all'orizzonte un "neoumanesimo". L'umanesimo, infatti, segnò a suo tempo un autentico entusiasmo che investì tutti gli ambiti dell'attività umana. Non fu una visione frammentaria del mondo, ma unitaria; così come unitaria era la lettura dell'uomo che era stato posto al centro del creato. In questa fase, che si estese dalla filosofia alla letteratura, dall'arte alla scoperta di nuove terre, Dio non era escluso, ma diventava l'orizzonte di senso della ricerca personale e della vita sociale.
Ricreare questo umanesimo è un compito che spetta a tutti e la sua realizzazione non può essere unilaterale. Noi cattolici desideriamo dare il nostro contributo peculiare come lo è stato nei secoli passati. Abbiamo a cuore il destino dei popoli e dei singoli, perché la nostra storia ci ha resi "esperti in umanità". Il Vangelo che trasmettiamo di generazione in generazione è annuncio di un nuovo modo di vivere, realizzato per superare la paura più grande che l'uomo possiede: la morte come annientamento di sé. Non abbiano timore della Chiesa quanti presumono di conoscerla solo per una lettura indiretta, distante e spesso frutto di errate precomprensioni. Certo, nel corso della nostra storia alcuni di noi hanno sbagliato e tutti noi ci sentiamo per questo responsabili. Ma la Chiesa è altro dall'agire dei singoli.
Essa va oltre i confini stabiliti dagli accordi convenzionali e non si ferma al frammentario agire degli individui; la Chiesa è la continuazione di Cristo risorto e sua efficace presenza nella storia d'ogni tempo per essere "strumento di unità di tutto il genere umano". Qualcuno potrebbe avere paura che la nostra azione tenda a distruggere le conquiste della modernità a cui è particolarmente legato. Niente di più falso. Non c'è in noi volontà alcuna di distruzione delle vere conquiste operate nel corso dei secoli; non lo potremmo fare, non ne saremmo capaci e non possiamo contraddire gli insegnamenti del concilio Vaticano II. Ne erano ben convinti i nuovi padri fondatori quali De Gasperi, Adenauer e Schumann, i quali forti della loro fede comune convennero su un progetto che ai molti sembrò utopia.
Il moderno concetto di democrazia, di laicità, dei fondamenti dei diritti non avrebbero avuto esito favorevole se non avessero trovato l'avallo nel concetto di persona, di dignità e di ricerca del bene comune che sono capisaldi della nostra visione sociale. Alla stessa stregua, è necessario ricordare che la difesa della ragione trova in noi degli alleati leali e fedeli; non potremmo, infatti, pensare a una fede forte dinanzi a una ragione debole. Noi siamo fautori di una ragione forte in grado di sostenere una fede libera proprio perché frutto di una scelta ragionata dinanzi alla verità.
Nessuno tra di noi dovrebbe cadere nella trappola di pensare all'unione dell'Europa dimenticando che le sue radici affondano in una fede che ha alimentato per secoli la convivenza e il progresso di popoli diversi. Noi non abbiamo una sola lingua e possediamo tradizioni culturali e giuridiche diverse; eppure, il nostro denominatore comune è facilmente rinvenibile nel cristianesimo. Per questo, nessuno si illuda sul futuro. Non ci sarà un'Europa realmente unita, prescindendo da ciò che essa è stata. Non si potrà imporre a cittadini così diversi un senso di appartenenza a una realtà senza radici e senza anima; il progetto non riuscirà, perché l'identità richiede certezze e queste possono essere consolidate non attraverso strumenti esterni, ma mediante la riscoperta della propria tradizione comune. Questo crea identità e desiderio di appartenenza; altrimenti, saremo destinati a veder prevalere i singoli egoismi di turno e la reazione sarà quella di rinchiudersi in nuovi confini, probabilmente non territoriali, ma certamente frustranti e fallimentari. Solo una forte identità condivisa potrà debellare forme di fondamentalismo e di estremismo che ripetutamente si affacciano nei nostri territori.
Perché questo avvenga, è necessario uscire da una forma di neutralità in cui l'Europa si è rinchiusa pur di non prendere posizione a favore di se stessa e della sua storia. Conati di anticattolicesimo sempre più frequenti in questi ultimi anni, presenti in diversi settori della società, dovrebbero vederla in una reazione attenta e pronta almeno tanto quanto viene riservato ad altre religioni. Se l'Europa si vergogna di ciò che è stata, delle radici che la sostengono e dell'identità cristiana che ancora la plasma allora non avrà futuro. La conclusione potrà essere solo quella di un declino irreversibile. Se la politica non sarà capace di un salto di qualità in grado di ritrovare un sistema valoriale di riferimento che vada oltre l'imposizione ideologica, l'apporto per la costruzione dell'Europa sarà compromesso. Mettere di nuovo al centro dell'impegno europeo alcuni principi valoriali non potrà che essere salutare per il suo futuro. In primo piano, la famiglia che rappresenta il soggetto determinante del tessuto sociale; se non lo si vuole fare per convinzione, lo si faccia almeno per calcolo economico. La centralità della famiglia appare come la trincea necessaria per evitare il declino della responsabilità sociale che ormai troppo spesso è dato verificare.
Il primato della vita umana, dal suo primo istante fino alla sua conclusione naturale, appare come l'urgente presa di consapevolezza davanti a una generalizzata forma di denatalità e di spregio per la vita che pone in crisi la stessa sopravvivenza della civiltà. La china dell'invecchiamento, verso cui l'Europa si sta dirigendo, mostra la stagione invernale di questa Unione che ha scelto il declino pur di imporre un discusso diritto del più forte nei confronti della vita innocente. A un uomo rinchiuso nella paura e sempre più solo ciò che gli si propone è una morte veloce e beffardamente felice. L'ultima illusione è, eufemisticamente, una "dolce morte", come se la morte non portasse con sé il dramma del limite ultimo di una domanda esistenziale perenne che chiede di essere vinta e non subita. Questa slippery slope è troppo scivolosa per essere difesa come diritto quando, invece, nasconde la paura e la sopraffazione del nulla, per non saper dare senso completo all'esistenza. L'economia e la finanza, inoltre, dinanzi al dilagare di una prospettiva di mercato che sembra schiacciare conquiste sociali raggiunte faticosamente nel corso dei secoli dovranno riscoprire l'istanza etica.
Questo riferimento diventa sempre più urgente quanto più si percepisce la crisi in cui siamo inseriti. Una politica di integrazione più che di regolamentazione dell'immigrazione, è quanto appare urgente dinanzi a una situazione conflittuale sempre più forte che conduce a forme d'estremismo inaccettabili per il tasso di fondamentalismo di cui sono composte. Ciò che dovrebbe far riflettere è che l'integrazione avviene in maniera indolore quando alla base si trova la stessa espressione di fede. In ogni caso, non potrà esserci vera integrazione se i protagonisti avranno paura o vergogna della loro identità. La paura dell'altro, in effetti, nasconde al fondo una paura di sé con il rifiuto di un'affermazione della propria identità, storia e cultura. Il riconoscimento di un fondamento comune quale il cristianesimo, è ciò che ha consentito un'immigrazione pacifica tra Paesi dell'Est verso la libertà e il benessere dell'Ovest. L'istanza etica, quindi, appare tanto più urgente quanto più verifichiamo l'imporsi di forme che attentano la dignità della persona. Infatti, il mercato, la finanza, l'economia, la scienza, la tecnica... senza il riferimento ai principi etici potrebbero diventare facilmente fonte di ingiusta discriminazione.
Noi cattolici non indietreggeremo in questa assunzione di responsabilità e non accetteremo di essere emarginati. Siamo convinti, infatti, che la nostra presenza sia essenziale perché il processo in corso possa giungere a buon fine. Priva della presenza significativa dei cattolici, comunque, l'Europa sarebbe in ogni caso più povera, più isolata e meno attraente. Mi sia consentito concludere con il riferimento a un racconto medievale. Un poeta passò accanto a un cantiere e vide tre operai indaffarati; erano tagliatori di pietre. Si rivolse al primo e gli chiese: "Che fai, amico mio?". Quello noncurante gli rispose: "Sto tagliando una pietra". Andò oltre e vide il secondo a cui pose la stessa domanda, e quello rispose con sorpresa: "Partecipo alla costruzione di una colonna". Poco più avanti il pellegrino vide il terzo e anche a questi diresse la stessa domanda, la risposta carica di entusiasmo fu: "Sto costruendo una cattedrale". Come il racconto insegna ci sono vari operai per la costruzione di questa nuova Europa; noi abbiamo la presunzione di voler costruire una cattedrale.
(©L'Osservatore Romano - 26 novembre 2010)