Chiesa e chiese nella storia d'Italia
Il peso morale degli edifici
Timothy Verdon
Pubblichiamo alcuni stralci dal volume Ecclesia. Le chiese d'Italia nella vita del popolo (Torino, Utet, 2010, pagine 240).
Nell'Italia costellata di edifici religiosi grandi e piccoli, di cattedrali, pievi, oratori e cappelle, di santuari, monasteri, conventi e compagnie, che cosa comunica veramente la parola "chiesa"? E, nel Paese che ospita la Santa Sede, che cosa comunica lo stesso termine scritto con la c maiuscola "Chiesa"? Al di là di connotazioni politiche proprie della Repubblica, e prescindendo da situazioni sviluppatesi all'epoca del Risorgimento, qual è stato nei secoli l'effettivo peso morale degli edifici, l'influsso spirituale delle forme di vita a essi connesse, l'impatto sociale dell'istituzione che gli uni e le altre rappresentano? Oltre al loro valore architettonico, insomma, che senso hanno avuto le chiese d'Italia nella vita storica del popolo?
Sono domande complesse, queste, ma - proprio nell'Italia che festeggia 150 anni di unità politica - ineludibili. Tra le terre di antica religiosità dell'area mediterranea (ma anche del Medio Oriente e del subcontinente indiano), l'Italia infatti ha una posizione unica. Non solo ha conservato numerosi templi antichi e con essi il ricordo di credenze e pratiche cultuali superate da millenni, ma fino a oggi vive la fede cristiana, introdotta nella penisola pochi decenni dopo la morte di Gesù, in luoghi fisici e mentali espressivi di continuità con il passato. Lo sa bene il romano che prega in Santa Maria sopra Minerva, e lo scopre il turista che, nel tempio ricostruito dall'imperatore Adriano in onore di tutte le divinità olimpiche, il Pantheon, trova un altare eucaristico e la dedica a Maria e tutti i martiri. Lo sapevano i pisani che nell'XI secolo riportarono dalla Sardegna colonne antiche per la navata dell'erigenda Primaziale, e ne era consapevole l'artista duecentesco, forse Giotto, che ad Assisi ambientò un episodio della Vita di san Francesco davanti al tempio romano che ancora domina la piazza di quella città. Avverte con forza questa impressionante continuità il popolo di Siracusa che, oltre la facciata tardo barocca della loro cattedrale dedicata a Maria, trova la cella di un tempio dorico costruito 2.600 anni fa in onore di Atena. La religione in Italia, un po' come la madre terra venerata dagli antichi, racchiude il mistero della vita. Ce lo suggeriscono due miniature di un rotolo pergamenaceo del XI secolo custodito alla British Library di Londra: la figura di Tellus (la Madre Terra al cui seno si nutrono piante e animali) e, subito sotto, la Mater Ecclesia: la "Madre Chiesa" che sostiene la volta di un tempio affollato dei suoi figli, i cristiani. Queste miniature introducono l'Exultet, l'inno patristico cantato la notte di Pasqua, che infatti apre con l'invito alla "Terra" e alla "Madre Chiesa" di esultare per il trionfo di Cristo. L'immagine materna della Chiesa fa parte della cultura popolare in Italia.
Lo stesso posizionamento degli edifici di culto a volte configura un rapporto con il vicino abitato simile a quello della figura di Tellus nel rotolo dell'Exultet, come se davvero tutte le case di un quartiere o di una città attingessero vita dalla "Casa" al loro centro, proprio come fanno le creature dalla terra. Il parallelismo teologico tra Maria, da cui è nato Cristo, e la Chiesa da cui nascono i cristiani, ha poi ingenerato eloquenti allusioni iconografiche alla maternità: lo stemma quattrocentesco della cattedrale di Milano, per esempio, situa l'intera struttura sotto il manto di un'enorme Madonna, così che chiunque entri per le porte di facciata si trovi necessariamente "in Maria", praticamente nel suo grembo. Oppure una tavola di Francesco di Giorgio Martini raffigurante Maria che stende il manto sul duomo e sulle case di Siena (biccherna del 1467).
Nell'iconografia mariana la stesura del mantello implica la misericordia divina. Nel caso della tavola senese datata 1467,uno scritto precisa che l'occasione dell'esecuzione era un terremoto da cui la città era sopravvissuta senza gravi danni, sperimentando così in termini concreti la protezione materna della Vergine. Siena invero aveva un rapporto privilegiato con Maria, grazie al voto cittadino risalente all'epoca della vittoria senese sul nemico fiorentino a Montaperti nel 1260. Su impulso dell'allora sindaco, Buonaguida Lucari, alla vigilia della battaglia i senesi si sono "donati" alla Vergine, consegnando le chiavi della loro città a un'immagine mariana in duomo, in una cerimonia ripetuta annualmente nei secoli successivi.
Il caso senese non è atipico: analoghe forme di patronato mariano sono documentati ovunque. Si tratta di un rapporto tra Maria, figura della Chiesa, e città storiche la cui identità veniva letta attraverso la Vergine Madre di Cristo. "Un fiume e i suoi ruscelli rallegrano la città di Dio, la santa dimora dell'Altissimo", recita il Salmo 45: "Dio sta in essa: non potrà vacillare; la soccorrerà Dio, prima del mattino". Queste parole, che nel loro contesto originario connotavano Gerusalemme, vengono adoperate nella liturgia delle feste mariane, perché anche Maria è stata "rallegrata" dal fluire dello Spirito, diventando "dimora" del Dio che "in essa" è rimasto per nove mesi. Maria è figura della "città santa, la nuova Gerusalemme (...) pronta come una sposa adorna per il suo sposo", di cui parla il Nuovo Testamento (Apocalisse, 21, 2).
Tale associazione d'idee non è solo biblica. Pure la cultura greco-romana identificava le città con divinità femminili, e la più celebre carta dell'impero romano - la Tabula peutingeriana, compilata nel IV secolo - simboleggia Roma e altre città mediante imponenti figure di donne. Un uso metaforico, questo, trasmesso al medioevo come parte del "bagaglio" della tradizione classica e che entra nell'immaginario comune. Il cristianesimo poi riveste la metafora di preciso senso sociale: Maria, che aveva portato in grembo Cristo, viene pensata come icona della madre Chiesa che porta in sé una nuova umanità; la Chiesa a sua volta verrà considerata immagine terrena della Gerusalemme celeste. Sin dai primi secoli cristiani, poi, queste feconde figure semantiche - la terra, la maternità, la Chiesa, Maria e la città - s'intrecciano con altri simboli. Nella prima grande chiesa romana dedicata a Maria, per esempio, Santa Maria Maggiore, iniziata subito dopo il concilio di Efeso che nell'anno 431 confermò il titolo mariano "Madre di Dio", l'iconografia dell'arco d'ingresso al presbiterio fa vedere la vita della Vergine sopra raffigurazioni ideali di Bethlem e Hierusalem alle cui porte stanno pecore pronte a entrare; nell'arco di ciascuna porta urbica pende una croce dorata. In questa chiesa dedicata a Maria, l'idea è quella di abbinare al senso mariano della civitas, con la sua tradizionale connotazione ecclesiale, l'altrettanto ecclesiale figura del gregge, che nel Nuovo Testamento viene associata soprattutto con Cristo, Buon Pastore.
La croce che pende nella porta della città ricorda che, secondo l'insegnamento di Cristo, "il buon pastore offre la vita per le sue pecore" (Giovanni, 10, 11).
Attraverso le porte urbiche raffigurate in questi mosaici si vedono infine teorie di colonne simili a quelle della navata di Santa Maria Maggiore stessa, così che "città" e "chiesa" diventano un tutt'uno, e il messaggio di un luogo materno, nutritivo - al contempo urbs e ovile - si apre al mistero del Buon Pastore ucciso per le pecore che egli alimenta mentre camminano verso la città celeste. Il passaggio concettuale è suggestivo, e, guardando l'altare incorniciato da immagini della Vergine e delle due città, ancor oggi i fedeli si percepiscono - prima in rapporto a Maria, poi in rapporto a Cristo - come "figli partoriti" e "pecore nutrite" in cammino verso una città al cui ingresso vi è la croce dorata, segno di sofferenza e di gloria. Non si tratta di un fenomeno solo romano. I coevi mosaici di una chiesa ravennate, Sant'Apollinare Nuovo, offrono un'analoga gamma di messaggi. Fanno vedere appena sopra l'arcata della navata maggiore due processioni di martiri che avanzano verso Cristo e Maria raffigurati in trono, rispettivamente a destra e a sinistra del presbiterio. In questa organizzazione delle immagini, i fedeli al livello del calpestio, guardando in alto mentre avanzavano verso l'altare, si percepiscono come parte della doppia processione, incamminati assieme ai santi verso Cristo e sua madre, membri della stessa comunità. Ed ecco: il "luogo" in cui il popolo che prende parte ai riti si riconosce partecipe di questa alta dignità è la "chiesa": al contempo grembo, ovile, città e scuola di vita.
All'indiscusso carattere biblico della sua concezione di Chiesa, l'Italia unisce poi una auto-comprensione politica, derivante dalla mai dimenticata origine romana delle sue città. L'identità ecclesiale, di nazione santa, s'innesta cioè sull'identità civica tramandata dal tardo impero, così che il concetto giudeo-cristiano di "popolo di Dio" viene a sovrapporsi a quello romano di plebs, un popolo autonomo con diritti e doveri, capace di difendersi e pronto al sacrificio.
Tale sovrapposizione concettuale, che segna profondamente lo sviluppo della Chiesa e delle chiese tra il V e il X secolo, porterà in alcune regioni al sistema "plebano" e alle pievi: letteralmente strutture in cui la plebs si riunisce, aule per un determinato "popolo". Per tutto il medioevo sarà infatti d'uso identificare la parrocchia di appartenenza, cittadina o rurale che sia, con questo termine: "popolo". Sostituendosi alla plebs antica, il popolo parrocchiale e il grande "popolo" della diocesi diventeranno l'ambito naturale della libertà, della solidarietà, della difesa dei valori.