In adorazione
discorrendo sull'essere
di Inos Biffi
Nelle attuali ricerche o, come si dice, nel dialogo sul monoteismo - riguardo al quale la fede cattolica professa l'esistenza di un solo Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo - è diffusa la discussione sull'essenza di Dio e sulla possibilità di nominarlo e quindi sul valore dei nomi che vengano attribuiti.
Quanto alla denominazione di Dio: parrebbe che nessun nome gli convenga e che nessuna idea ci si possa fare di lui, a motivo della sua trascendenza assolutamente inarrivabile e inattingibile e quindi inconcepibile dalla conoscenza umana, pena la sua riduzione ai confini e quindi ai limiti umani. Ed è come dire che di Dio non si può avere nessun concetto e che ogni concetto a suo riguardo sia destinato a essere equivoco: di Dio non si può parlare, ma solo tacere.
Ma, se questo fosse vero, la conseguenza sarebbe un'assoluta teoria dell'ateismo, nel senso che qualsiasi tentativo di raggiungere Dio sarebbe destinato al fallimento, e la stessa Rivelazione risulterebbe vana e impossibile, per l'impotenza e l'improprietà di ogni concetto o "immagine" a riferirsi a Dio.
San Tommaso ha riflettuto acutamente e ampiamente sui "Nomi di Dio", sia nel Commento al De divinis nominibus dello Pseudodionigi - uno dei testi più luminosi e vibranti dell'Angelico - sia in altre sue opere, tra cui la vasta e analitica questione 13 della Summa theologiae.
In queste ultime possiamo notare come programmatica, l'affermazione: "Noi possiamo denominare Dio a partire dalle creature, ma non in modo tale che il nome che lo significa (nomen significans ipsum) esprima la sua essenza così com'essa è (exprimat divinam essentiam secundum quod est)" (Summa theologiae, I, 13, 1, c.). Noi diciamo che "Dio non ha nome o sta al di sopra di qualsivoglia nome dal momento che la sua essenza oltrepassa ciò che di Dio possiamo comprendere con l'intelletto o significare con la voce" (Ea ratione dicitur Deus non habere nomen, vel essere supra nominationem, quia essentia eius et supra id quod de Deo intelligimus et voce significamus, ibidem, 1m).
Non ci è noto il modo di essere di Dio, ma solo il suo riflettersi in modo imperfetto nelle creature: "Così com'è, il nostro intelletto, in questa vita, non lo conosce" (intellectus noster non cognoscit eum ut est, secundum hanc vitam, ibidem, 2m). Infatti, "in questa vita noi lo conosciamo secondo quello che di lui si trova rappresentato nelle perfezioni delle creature" (ibidem, c.).
L'affermazione è ripetuta: nessun nome è in grado di esprimere perfettamente quello che Dio è (quod est Deus perfecte): "Qualsiasi nome lo significa in modo imperfetto, così come in modo imperfetto egli si trova rappresentato nelle creature" (unumquodque [nomen] imperfecte eum significat, sicut et creaturae imperfecte eum repraesentant, ibidem, 2, 1m).
In altre parole, bisogna distinguere tra "perfezioni significate" (perfectiones ipsae significatae) e "modo di significare" (modus significandi, ibidem, 3, c.).
Quanto alle "perfezioni" significate alcuni nomi convengono a Dio in senso proprio, anzi, valgono primariamente per lui - come i nomi indicanti vita, bontà, sapienza, e così via; quanto invece al "modo di significare" non gli convengono in senso proprio: noi conosciamo solo il modo con cui tali perfezioni si ritrovano e si predicano nelle creature, mentre ignoriamo "come" esse si trovino in Dio, come siano in lui la vita, la bontà, la sapienza.
In conclusione: noi non siamo in grado di oltrepassare lo schermo, il prisma creaturale per collocarci all'interno di Dio, evadendo lo spazio del mondo creato.
D'altronde in san Tommaso sono chiare due convinzioni.
La prima convinzione è che "di Dio non possiamo sapere quello che è, ma quello che non è; non siamo in grado di riflettere su come Dio sia, ma piuttosto su come non sia" (De Deo scire non possumus quid sit, sed quid non sit; non possumus considerare de Deo quomodo sit, sed potius quomodo non sit, Summa theologiae, I, 3, introduzione). Dio - ed è il pensiero di Agostino nel De verbis Domini (38, 2, 3) - "non può essere alla portata del nostro intelletto, ma il modo più perfetto di conoscerlo nello stato presente sta nel conoscere che egli è superiore a tutto ciò che il nostro intelletto è capace di concepire, per cui ci uniamo a lui come a uno sconosciuto" (Ipse non potest esse pervius intellectui nostro; sed in hoc eum perfectissime cognoscimus in statu viae quod scimus eum esse super omne id quod intellectus noster concipere potest; et sic ei quasi ignoto conjungimur, In IV Sententiarum, 49, 2, 1, 3m). Anche se la Rivelazione ci ha fatto senza dubbio conoscere Dio più pienamente (plenius), manifestandoci perfezioni e proprietà ignote alla "ragione naturale" (ratio naturalis) - si pensi al suo essere uno e trino.
Con tutto questo, la seconda convinzione di san Tommaso è che l'impossibilità di conoscere Dio univocamente, cioè nella sua essenza, non rende equivoco il nostro parlare di lui, ma lo rende analogico, inadeguato sì, ma vero e provveduto di senso (analogice, et non equivoce pure, neque univoce, Summa theologiae, I, 13, 5, c).
Lo pensano alcuni filosofi che, dopo aver sostenuto vanamente che il Dottor Angelico includeva Dio nell'àmbito degli enti, adesso fraintendono la dottrina sull'assoluta trascendenza divina, giungendo a concepire l'ineffabilità di Dio come una equivocità e a parlare di non-Essere di Dio.
Senza dire che una logica alternativa alla conoscenza analogica dovrebbe essere un completo silenzio su Dio, o una teologia totalmente "negativa".
Che Tommaso rifiuta per affermare che "Dio si onora sì con il silenzio, non perché non si dica o non si conosca nulla di lui, ma perché, qualsiasi cosa impariamo o conosciamo di lui, ci rendiamo conto che la nostra intellezione ha fallito" (Deus honoratur silentio, non quod nihil de ipso dicatur vel inquiratur, sed quia quidquid de ipso discamus vel inquiramus, intelligimus nos ab eius comprehensione defecisse, Super Boetium de Trinitate, 2, 1, 6m): Dio sta sempre, inarrivabilmente, di là; imprendibile e impercorribile.
È la prospettiva anselmiana: Dio è il sempre "Oltre", Colui che non è disposto nella serie, neppure come il primo e il più alto, perché sta nella inconcepibilità (quo magis cogitari nequit). La teologia di Tommaso nasce dall'incessante e gioioso desiderio di comprendere Dio: desiderio che tiene vigile e impegnata la ricerca, che la nutre di speranza, in attesa della visione.
Un ultimo rilievo sul Nome divino che ha incantato l'Angelico, quello di Essere. In Dio - egli ripete - l'essenza e l'essere coincidono; "la sua essenza è il suo essere (essentia eius est suum esse)", e questo significa che egli è l'Atto puro e Perfezione illimite. Lasciando trasparire una profonda, anche se come sempre contenuta, emozione, Tommaso definirà la coincidenza tra l'essere e l'essenza di Dio una "Verità sublime" (Haec sublimis veritas, Summa contra Gentiles, I, 22, n. 10), ampiamente dimostrata con la ragione e insieme rivelata a Mosè, il quale la imparò da Dio, quando alla sua domanda si sentì rispondere che il suo nome è "Colui che è".
Qualcuno confonde il puro Essere di Dio con la staticità o una distaccata mancanza di sentimenti, per cui sente il bisogno di definirlo come essenzialmente relativo alla creatura, dotato a sua volta di mobili sentimenti, in tal modo concependo Dio a immagine dell'uomo.
È vero invece che, se Dio è l'Essere, non lo è nel modo in cui noi abbiamo l'esperienza dell'essere: egli non "è", come "siamo" noi, bensì è in modo tutto proprio, che lui solo conosce e che a noi sfugge, legati tuttora come siamo alle insuperabili restrizioni di creature.
Ma ciò non produce tristezza o risentimento; al contrario genera stupore e incontenibile ammirazione, o una specie di confusione che si risolve in adorazione, che diventa sconfinata e si confonde al pensiero che Dio in ogni istante, dal nostro intimo, ci comunica il dono dell'essere che ci fa esistere. Non è necessario aggiungere la preghiera alla teologia o anche alla filosofia dell'essere: esse sono oranti per natura loro.
(©L'Osservatore Romano - 28 gennaio 2011)