L’augurio 2011 dell’abbé de Cacqueray : “Non andate alla Messa del motu proprio”
Con un certo scandalo leggiamo i recentissimi propositi dell’abbé Régis de Caqueray (il superiore del distretto di Francia, il più grande e prestigioso della Fraternità San Pio X), sull’assistenza alla Messa di San Pio V, celebrata da sacerdoti canonicamente riconosciuti dalla Santa Sede. L’influente sacerdote, stimatissimo dai suoi superiori, al punto che ricopre uno dei ruoli più importanti nel sodalizio, si esprime, nel suo testo d’auguri per il nuovo anno 2011, con i termini che seguono : “Per essere completi su questo argomento (parlava dell’importanza dell’assistenza alla Messa tradizionale anche se essa è difficile da trovare), dobbiamo ancora citare le altre Messe di San Pio V celebrate col favore degli indulti successivi, e in ultimo col motu proprio. E’ vero che noi ve ne sconsigliamo la frequentazione »[1]. Non si dovrebbero, a suo dire, frequentare i sacramenti distribuiti da coloro che sono su posizioni diverse da quelle della Fraternità, ma in questo apparente clima d’accordi canonici, si afferma anche che sarebbe opportuno che i preti diocesani si avvicinassero al rito tradizionale, senza poter contare però - vista la severa ammonizione - sulla presenza dei fedeli della Fraternità.
E’ difficile dire quanto vi sia di “teologico”, in tali affermazioni, e quanto di “ideologico” o di “partigiano”. Qualunque sia l’intenzione dell’abbé de Cacqueray, il problema resta quello, come affermato in concomitanza dell’annuncio della riunione d’Assisi per il prossimo ottobre, “il pericolo che seguirebbe per le anime”. Va osservato che la frase dell’abbé de Caqueray, benché gravemente scandalosa, non è accompagnata da alcuna giustificazione teologica, e ancor meno da una rigorosa esposizione dei presupposti di una tale affermazione, né delle conseguenze ad essa connesse. Tuttavia i contorni da “Pétite Eglise” non sfuggono al lettore attento.
Un’argomentazione ben strutturata
Più speculativamente profondo e logicamente strutturato è invece il pensiero di un altro teologo della Fraternità, l’abbé Mérel (già professore a Ecône, ricopre ora incarichi nel distretto di Francia). In un articolo[2] che ha fatto scuola - è stato ripubblicato in più occasioni su riviste locali della Fraternità a partire dal 2008 -, e che forse ha ispirato le più vaghe espressioni del suo superiore, si esprime in termini teologici accessibili, ma estremamente ben costruiti. Il discorso è semplice: la messa di San Pio V, presa in sé, é cosa buona. Assistere invece alla Messa di San Pio V non è sempre cosa buona, dipende dalle circostanze. Fin qui si potrebbe anche essere d’accordo. Tuttavia l’abbé Mérel continua affermando che, ove la Messa tradizionale venisse celebrata da un sacerdote dell’ Ecclesia Dei, non sarebbe cosa buona parteciparvi. Si può fare infatti un cattivo uso di una cosa buona, dice l’autore. Con il rhum - l’esempio è testuale - che una cosa buona in sé, ci si può anche ubriacare e fare peccato. Quali sarebbero le circostanze che renderebbero cattiva, dunque, la partecipazione alla Messa? Continua l’abbé Merrel : “non bisogna assistere alla messa dai “ralliés” (con questo termine si intendono i “traditori” che dipendono dall’Ecclesia Dei e non dalla Fraternità – vi è un’allusione al “ralliement” di Leone XIII)[3], perché essi si sottomettono alla gerarchia conciliare”. Continua : “la messa di un prete “rallié” (traduci “allineato”/ “traditore”) è la Messa di un prete che, ufficialmente almeno, obbedisce al vescovo del luogo e al Papa (…) un prete che obbedendo alle autorità liberali e moderniste devierà necessariamente, un prete che, in fin dei conti, tradisce tutto ciò che ha fatto Mons. Lefebvre, tradisce le anime, le inganna”.
L’autore non tralascia le questioni pastorali, secondarie tuttavia nell’economia del discorso: dice per esempio che il fedele troverà nelle chiese dei “ralliés”, pubblicazioni piene d’errori, che potrebbero turbarlo, o incorrerà in predicazioni poco ortodosse, fatte, durante la Messa tradizionale, da un prete che tradizionale non è, o frequenterà “fedeli meno formati sulla fede”, rischiando, a contatto con essi, “di lasciarsi attirare”. L’abbé Mérel però, col talento speculativo che lo contraddistingue, dà la vera ragione teologica, che è radicata in un terreno più “universale” e non su una variante legata alle circostanze, e parla, in maniera assoluta, di tutti i preti “ralliés”, non solo di quelli che predicano “male”. Sostiene infatti che il prete “rallié”, il prete sottomesso canonicamente a Roma, “non è in una posizione giusta nella Chiesa. Non è in regola con Dio”. E conclude: “non si può mai spiacere a Dio, queste messe non sono per noi!”. Qualora per ragioni eccezionali si dovesse assistere alle Messe degli Istituti “Ecclesia Dei”, bisognerebbe “astenersi dal fare la comunione”, dice ancora l’autore, perché bisognerebbe restare in una resistenza ostensibilmente passiva. Si sta parlando, in questo caso, della stessa assistenza, prevista dai moralisti, ad un rito protestante o greco-scismatico. Insomma comunicare alle Messe dette da un sacerdote, che non aderisce alla posizione della Fraternità, è un peccato, è una cosa che “spiace a Dio”, e ciò in ragione del ministro. Non si deve partecipare quindi, non solo a causa delle omelie eterodosse, fattore variabile e secondario, ma in ragione del fatto che il celebrante è sottomesso ad un’autorità alla quale non si dovrebbe far altro che resistere, sotto pena di peccato. Sottolineiamo che l’autore non assume il rischio di rendere lecita l’assistenza alle Messe senza omelia, sarebbe obbligato ad ammettere che il sacramento è valido e lecito e non rischia di contaminare la fede dei fedeli; d’altro canto non vuol proibire la partecipazione alle Messe dei preti della Fraternità che sostengono tesi pericolose per la fede. E’ la sottomissione canonica a Roma che, da sola, fa sì che non si possa ricevere l’eucaristia.
Una magistrale dichiarazione di scisma
L’articolo dell’abbé Mérel è una magistrale dichiarazione di scisma, anche se, dal punto di vista dell’autore, il peccato di scisma (o di eresia, o entrambi, il testo non lo specifica) sembra piuttosto da imputare al Papa e a quelli che Gli si sottomettono. La gerarchia cattolica avrebbe, nel suo insieme, commesso il peccato di allontanarsi dalla verità e non si potrebbe quindi entrare in comunione con essa nei sacramenti, anche se il rito è tradizionale. Questo testo è stato scritto nell’estate 2008, per indicare ai fedeli come comportarsi dopo il motu proprio. Lo stesso Motu proprio richiesto al Papa dalle autorità della Fraternità, che avevano indetto, allo scopo, la crociata di un milione di rosari.
Per completezza va detto che non sarebbe completamente falso quanto detto dall’abbé de Caqueray, e cioè che alle volte si possa sconsigliare d’assistere ad una Messa. Potrebbe essere il caso, anche per messe tradizionali, quando il significato teologico della Messa di sempre è gravemente deformato o anche ridotto - come purtroppo talvolta accade - a un puro fenomeno teatrale, che finisce per amalgamare incenso, sete preziose e omelie eterodosse. Ma è insostenibile che il principio debba applicarsi universalmente a tutte le Messe di quanti sono canonicamente sottomessi al Papa: una tale rottura della communicatio in sacris, con tutti coloro che non sottoscrivono le posizioni della Fraternità, non è null’altro che l’applicazione pratica di una teoria scismatica. Quando San Tommaso d’Aquino parla di scisma distingue due modi di commettere questo peccato. Il primo è la separazione dall’autorità ecclesiastica, il secondo è il rifiuto di comunicare “in sacris” con altre parti della Chiesa sottomesse al Papa[4]. Quest’ultimo è anch’esso un modo di dilaniare il Corpo Mistico di Cristo.
Qualora fosse necessario, affermiamo che essere sottomessi ad una autorità di diretta istituzione divina, come quella del Papa, non significa in alcun modo sottomettere pubblicamente l’intelligenza a tutto ciò che tale autorità sostiene o lascia intendere o sembra approvare, quando parla come teologo privato o agisce come persona privata. Questa non è la dottrina cattolica del Primato, né il Pontefice regnante ha mai richiesto una simile sottomissione. Infatti, benché si possa concedere che una certa frangia del tradizionalismo si diletti, con servilismo e con scarso senso teologico, nel dogmatizzare fino alle virgole le affermazioni di qualsiasi autorità ecclesiastica, anche solo locale, si dovrà con onestà riconoscere che questo fenomeno non è affatto universale. Di contro affermare che necessariamente, in tutti i casi di obbedienza canonica, si pecca contro la fede, per omissione di difesa della verità rivelata è non solo una menzogna e un inganno verso i fedeli, ma anche un’assurdità teologica. Saremmo alla ridicola affermazione che l’autorità suprema è divenuta formalmente eretica e con essa quanti vi si sottomettono visibilmente, per il solo fatto di sottomettersi.
La Fraternità, se non vuole essere scismatica, deve riconoscere che essa è già sottomessa visibilmente al Papa, tanto quanto lo è un qualsiasi prete diocesano. Ontologicamente, la sottomissione della Fraternità all’autorità ecclesiastica non differisce da quella di tutti gli altri Istituti, tradizionali o no. Permane tuttavia un problema canonico, che deve essere risolto al più presto, poiché di fatto il perdurare di questo stato anormale rischia di condurre alcuni dei suoi membri su posizioni teologiche gravemente erronee. I citati articoli lo confermano.
Le incoerenze di una duplice politica
Aggiungiamo che se è cosa naturale e comprensibile che i sacerdoti della Fraternità vogliano coerentemente restare fedeli ai principi del proprio fondatore, è anche cosa buona e moralmente necessaria, essere coerenti nei propositi dichiarati pubblicamente. Ora, la tesi sopra discussa, a nostro avviso teologicamente insostenibile, denuncia un ostacolo insormontabile alla conclusione di un accordo canonico tra la Fraternità e la Santa Sede, ma anche una chiara volontà di continuare su due binari paralleli, che non comunicano nemmeno nei sacramenti celebrati in rito tradizionale. Se infatti per comunicare in sacris con il Papa - come implicitamente affermato - bisognerà attendere l’accordo dottrinale, col quale la Santa Sede farà propria la posizione della Fraternità, allora bisognerà avere la coerenza di affermare che attualmente la gerarchia cattolica è almeno prossima all’eresia e allo scisma, tanto da giustificare una sì grave scelta. Tertium non datur.
Ma se al contrario l’accordo fosse possibile e forse imminente, secondo i termini di Mons. Fellay stesso, e qualora il Superiore Generale della Fraternità procedesse effettivamente ad un accordo canonico – permanendo le riserve espresse sul progetto della riunione interreligiosa d’Assisi e il disaccordo su certe scelte del Papa – cosa farà l’abbé de Cacqueray ? Sconsiglierà ai “suoi” fedeli di andare alla Messa alla Fraternità? Dirà loro di non ricevere la comunione dalle mani di Mons. Fellay, perché ha firmato con le autorità che organizzano gli incontri d’Assisi”? La coerenza tra i propositi di questi due importanti responsabili dell’opera fondata da Mons. Lefebvre è quantomeno difficile da comprendere: essa sembra piuttosto il riflesso d’una politica ambigua. Per questo e per altri motivi sempre, su queste pagine, si è espressa la ferma convinzione dell’opportunità di un accordo canonico, che non pretenda di essere “dottrinale”. Dal punto di vista dogmatico, infatti, è assurda l’idea di un accordo “dottrinale”, che il Vicario di Cristo dovrebbe sottoscrivere. Dal punto di vista pratico i fatti dimostrano che è una pretesa voler risolvere in poche righe - con qualche episodico incontro tra specialisti - la complessità dell’attuale situazione ecclesiastica e con essa i problemi sollevati da alcuni testi magisteriali. Non è invece assurdo - né teologicamente, né prudenzialmente - riconoscere canonicamente l’autorità di Pietro, salvaguardando un’autonomia di dibattito teologico su alcuni punti di perplessità.
Siamo pronti a pubblicare in questa sede, se necessario, qualsiasi correzione o precisazione che, sulla questione, provenga dai legittimi superiori della Fraternità San Pio X, e a rendere pubblica un’eventuale rettifica, qualora pubblicamente essi vogliano dissociarsi dai contenuti qui espressi. Aspettiamo anche e sopratutto una chiara risposta alla domanda se si può assolvere il precetto domenicale assistendo ad una Messa della Fraternità San Pietro e ricevere l’eucarestia da un sacerdote del Buon Pastore, del Cristo-Re o di una diocesi qualsiasi.
La Fraternità San Pio X, che non può essere accusata di lassismo, ha sempre precisato e talvolta punito con fermezza, quando le opinioni di un membro contrastavano con quelle generali. Se le opinioni da “Petite Eglise”, oggi apertamente sostenute da alcuni suoi sacerdoti, non sono condivise dal Superiore Generale, con altrettanta fermezza dovrebbero smentite pubblicamente. Altrimenti vorrà dire che il linguaggio è volutamente ambiguo.
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[1] Abbé R. de Cacqueray, Les voeux aux fidèles, Suresnes le 27 décembre 2010, nella lingua originale : « Pour être complet sur ce sujet, il nous faut encore citer ces autres messes de saint Pie V célébrées à la faveur des indults successifs, puis finalement du motu proprio. Il est vrai que nous vous en déconseillons la fréquentation».
[2] Abbé Jacques Merrel, « Discussion de parvis sur la messe des ralliés », in « Le Pélican », juillet-août 2008. Integralmente ripubblicato in « Le Sel de La Terre » n. 70, Automne 2009, p. 188-193. L’articolo beneficia di periodiche ripubblicazioni per la sua struttura teologica rigorosa anche se espressa sotto forma di accessibile dialogo fra un giovane fedele ed un sacerdote sapiente.
[3] Col termine “rallié” si designa in Francia il cattolico “amico del potere”, “traditore”. La parola si diffuse notevolmente sotto il pontificato di Leone XIII, col senso di “cattolico allineato” e designa negli ambienti della Fraternità San Pio X gli istituti che dicono la Messa tradizionale dipendenti dall’Ecclesia Dei .
[4] San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, IIa-IIae, qu. 39, a. 1, corpus : “Ecclesiae autem unitas in duobus attenditur, scilicet in connexione membrorum Ecclesiae ad invicem, seu communicatione; et iterum in ordine omnium membrorum Ecclesiae ad unum caput (…). Et ideo schismatici dicuntur qui subesse renuunt summo pontifici, et qui membris Ecclesiae ei subiectis communicare recusant”.