Al portico dell'eternità
col sorriso sulle labbra
di Vicente Cárcel Ortí
Il 22 gennaio il calendario liturgico universale ricorda il diacono Vincenzo e a Valencia si celebra la sua festa con particolare solennità, poiché è il patrono principale dell'arcidiocesi e della città, in quanto in essa subì il martirio, fu sepolto il suo corpo e si conservano i luoghi dove egli fu processato, sottoposto a torture e al glorioso martirio, che avvenne durante la persecuzione di Diocleziano, probabilmente fra gli anni 304 e 306. Recenti scavi archeologici nei cosiddetti luoghi vincenziani, situati nei dintorni della cattedrale metropolitana di Valencia, hanno confermato molti dati già noti alla storia e alla tradizione.
Considerato il più insigne dei martiri spagnoli, la sua fama si diffuse molto presto in tutta la Chiesa; sant'Agostino gli dedicò vari sermoni e il poeta Aurelio Prudenzio Clemente narrò la sua passione nella sua opera principale, il Peristephanon, ricca di lirismo e di colore. Prudenzio, cantore ispirato del martirio cristiano, esaltò nei suoi inni le prodezze di diversi testimoni della fede e cantò le persecuzioni non come erano avvenute, ma come se le figurava l'immaginazione popolare, supplendo così alla mancanza di documenti, in quanto la maggior parte di essi non si era salvata poiché apparsa prima della fine delle persecuzioni. Durante l'ultima di queste persecuzioni gli editti imperiali ordinarono l'annientamento delle sacre scritture e degli archivi delle chiese, e l'immensa maggioranza degli acta dei martiri scomparve.
Lo stesso Prudenzio, nel primo inno del Peristephanon, dedicato ai santi Emeterio e Celedonio, deplora la scarsità di fonti storiche di cui la primitiva Chiesa ispana disponeva per dimostrare l'eroismo dei suoi martiri: "Ahi, oblio inveterato dell'antichità silente! Proprio ciò ci viene invidiato, e la stessa fama si estingue. Il blasfemo persecutore ci ha strappato da tempo gli atti" (O vetustatis silentis obsoleta oblivio! / Invidentur ista nobis, fama et ipsa extinguitur. / Chartulas blasphemus olim nam satelles abstulit).
Vincenzo era diacono del vescovo di Saragozza, Valero; entrambi furono condotti come prigionieri a Valencia, antica colonia romana, dove si stava recando Daciano, il giudice incaricato di mettere in atto gli editti persecutori dell'imperatore. Questi, mentre si accontentò di esiliare il vescovo, irritato dall'eloquenza intrepida di Vincenzo, ordinò che fosse torturato. Intimato ad abiurare, il diacono rifiutò più volte le offerte senza emettere un lamento. Prudenzio fa pronunciare a Vincenzo un coraggioso discorso, effusione sublime dello stoicismo cristiano, e descrive le diverse torture a cui fu sottoposto, dopo essere stato messo su un letto di ferro incandescente, sommo grado della tortura.
Stanco dell'ostinazione del diacono, Daciano ordinò che fosse condotto in carcere, luogo che il poeta descrive, quasi lo avesse visto, come un luogo più oscuro delle stesse tenebre, chiuso e soffocato dalle pietre di una volta bassa e stretta. In questo luogo sotterraneo giaceva Vincenzo, con i piedi imprigionati nei ceppi. All'improvviso il carcere s'illumina; strani profumi sostituiscono i fetidi vapori; il suolo si ricopre di fiori; si spezzano i ceppi e le catene; si ode il battito di ali angeliche, e il martire riceve le liete ambasciate dei beati. Il più bello di tutti canta: "Alzati inclito martire; alzati e unisciti quale compagno nostro ai cori celesti(...) Oh soldato invincibile e fortissimo fra i forti! Già I tormenti crudeli e duri ti rispettano come vincitore(...) Lascia questo piccolo vaso caduco, fatto di terra, che disfatto si scioglie, e vola libero in cielo" (Exsurge, martyr inclyte, / exsurge securus tui: / exsurge, et almis coetibus / noster sodalis addere(...) / O miles invictissime, / fortissimorum fortior, / jam te ipsa saeva, et aspera / tormenta victorem tremunt(...) / Pone hoc caducum vasculum, / compage textum terrea, / quod dissipatum solvitur; / et liber in coelum veni).
Questo prodigio commuove la città e lo stesso Daciano vacilla fra ira, dolore e vergogna. Dalla profondità di quell'antro lo spirito di Vincenzo ritorna a Cristo, autore della luce, per ricevere il premio per la sua battaglia.
Prudenzio descrive in dolcissimi versi la morte, o meglio la vittoria, di Vincenzo: "Quindi inclinò appena il capo sui delicati cuscini, allo spirito vincitore le membra, volò in cielo" (Ergo, ut recline mollibus / rejecit aulaeis caput, / Victor relictis artubus / caelum capessit spiritus), il cui brillante finale contrasta con i due ultimi versi dell'Eneide, freddi come un commiato senza speranza, senza una parola di trionfo, né di luce, né di gioia, nei quali Virgilio dice: "Ma a lui si disfanno le membra con il freddo (della morte) e la vita miserabile fugge fra gemiti in mezzo alle ombre" (Ast illi solvuntur frigore membra / vitaque cum gemitu fugit indignata sub umbras) (Eneide, XII, 951-952).
Un'impressione dolorosa, quasi un brivido, suscitano, sia Virgilio sia Omero, quando descrivono la morte di un eroe, poiché i loro versi sono intrisi di un dolore indefinibile, segnato dal disincanto. È la morte della poesia pagana: lacrime senza consolazione, notte di perpetue tenebre.
Prudenzio invece esalta la morte come portico dell'eternità; per questo i martiri l'attendono con il sorriso sulle labbra: Vincenzo, Lorenzo, Eulalia, e molti altri furono esaltati dal più sublime dei poeti latini della Chiesa occidentale, il quale, nelle strofe finali di ogni inno del suo Peristephanon, sembra indicare la vita sul punto di spegnersi o, per lo meno, pronta per l'ultimo istante, e cerca di conquistarsi l'intercessione dei martiri, facendosi eco ufficiale di una tradizione popolare che li venera come tali.
(©L'Osservatore Romano - 22 gennaio 2011)