Quel monaco che è in noi
Nella serata di giovedì 27 gennaio si svolge nel Palazzo Apostolico Lateranense la seconda delle letture teologiche dedicate a "I grandi discorsi di Benedetto XVI". Al centro del dibattito il discorso tenuto il 12 settembre 2008 a Parigi al Collège des Bernardins. Anticipiamo ampi stralci di due delle relazioni.
di Giuseppe Dalla Torre
Che il cristianesimo abbia dato un contributo fondamentale a plasmare l'identità europea e, quindi, la sua cultura, è un dato storico innegabile, che solo da posizioni ideologiche di parte può essere - come peraltro non di rado oggi accade - ignorato o addirittura negato.
In effetti tra tardo antico ed età di mezzo operano fattori che costruiscono l'identità europea: la cultura classica greco-romana, la cultura germanica, la cultura celtica, la cultura slava vengono poste nel crogiolo di fusione dato dal cristianesimo. La religione forgia la cultura del continente, base, almeno per l'Europa occidentale, della sua stessa unità politica nel medioevo. E la cultura ha le sue parole, i suoi paradigmi, i suoi valori; modula sensibilità e promuove processi intellettuali e materiali. I relativi processi sono lunghi nel tempo, ma mettono radici profonde.
Anche i modelli cambiano. Ad esempio è stato giustamente osservato da Jacques Le Goff che "l'Europa medievale inventa anche nuovi modelli culturali diversi dall'eroe guerriero e dall'oratore dell'antichità. Il primo è l'espressione della nuova religione, del cristianesimo. È il modello del santo"; ed aggiunge: "Anche quando il medioevo si allontanerà e gli ideali religiosi si andranno affievolendo, il santo rimarrà presente tra gli europei, presente nell'arte e nella letteratura, presente in un'idea di perfezione umana (ci saranno i santi laici), presente nel calendario delle feste e nella grande quantità di nomi che molti europei portano tuttora".
Nel suo affascinante discorso tenuto al Collège des Bernardins a Parigi, il 12 settembre 2008, Benedetto XVI ha richiamato un altro grande modello che il cristianesimo ha introdotto nella cultura europea, nell'atto di forgiarla, vale a dire il monachesimo. Un monachesimo diverso da quello proprio di altre esperienze, come quello tardogiudaico degli esseni, col suo dualismo tra Dio e Belial, tra luce e tenebre; come quello induista e buddista; come lo stesso monachesimo cristiano orientale, di un Antonio abate, padre degli anacoreti, dalle forme di ascesi estreme, o di un Pacomio, padre dei cenobiti, che addita la possibilità di una vita monastica comunitaria. Quello cui fa riferimento Benedetto XVI è un monachesimo nuovo, che nella scelta di una condizione di vita non ordinaria non fugge peraltro dal mondo, ma entra a trasformarlo profondamente.
Come infatti annota il Papa sin dall'inizio delle proprie riflessioni, la vita dei monaci era caratterizzata dalla ricerca: "Erano alla ricerca di Dio. Dalle cose secondarie volevano passare a quelle essenziali, a ciò che, solo, è veramente importante e affidabile. Si dice che erano orientati in modo "escatologico". Ma ciò non è da intendere in senso cronologico, come se guardassero verso la fine del mondo o verso la propria morte, ma in un senso esistenziale: dietro le cose provvisorie cercavano il definitivo. Quaerere Deum".
La componente essenziale e caratteristica del monachesimo cristiano è racchiusa nel noto principio dell'ora et labora, che unisce l'orientamento alla parola, che appartiene all'essenza della ricerca dalle verità penultime alla Verità ultima, con l'orientamento al lavoro, cioè a quella peculiarità della condizione umana data dal suo coinvolgimento nell'opera di Dio nella creazione del mondo.
Il monachesimo incarna in maniera esemplare l'atteggiamento nuovo del cristianesimo nei confronti del mondo. La sua esperienza si distacca nettamente da esperienze precristiane e non cristiane alle quali solo apparentemente potrebbe assimilarsi.
Si distacca innanzitutto dall'idea della scelta monastica quale paradigma della fuga dal mondo al quale, in una prospettiva salvifica, l'uomo religioso si crede e si sente obbligato. La scelta monastica non è trascendimento della dimensione mondana, non è fuga dalle realtà create, non è annullamento della persona in un misticismo disincarnato, non è tantomeno contrapposizione dualistica di anima e di corpo, non è tensione, come nella prospettiva platonica, verso la liberazione dell'anima dalla prigione corporea. L'ora et labora di Benedetto ha costituito, nei secoli, un antidoto forte alle tentazioni che periodicamente si sono ripresentate per il cristiano: di uno spiritualismo disincarnato; di un manicheismo - nascente da una mala interpretazione di Agostino - che vede nel mondo il male da rifuggire; di un escatologismo apocalittico, che induce al disimpegno, alla rassegnazione, al terrore; di un rifiuto dall'impegno sociale e politico perché gli Stati sono percepiti solo come magna latrocinia.
Ma quella monastica si distacca da esperienze apparentemente analoghe anche sul fronte, opposto, di una escatologia tutta inframondana, di un annullamento dell'io nel mare della natura, di un eterno ritorno nelle forme più varie degli esseri viventi. Anche qui l'ora et labora di Benedetto ha costituito, nel divenire della storia, un antitodo forte contro le risorgenti tentazioni nascenti da una cattiva lettura di Tommaso, vale a dire di un regno di Dio realizzabile e da realizzare tutto qui e ora, di una funzione meramente politica del messaggio evangelico, nella prospettiva - pur condivisibile, ma non esclusiva né ultima - di una rivoluzione trasformante le strutture sociali e politiche in un senso più giusto, più sociale, più umano. Cioè, capovolgendo la nota immagine agostiniana, in un impegno a modellare la città di Dio sul paradigma della città terrena.
Come annota Benedetto XVI, "del monachesimo fa parte, insieme con la cultura della parola, una cultura del lavoro, senza la quale lo sviluppo dell'Europa, il suo ethos e la sua formazione del mondo sono impensabili".
Ma aggiunge: "Questo ethos dovrebbe però includere la volontà di far sì che il lavoro e la determinazione della storia da parte dell'uomo siano un collaborare con il Creatore, prendendo da Lui la misura. Dove questa misura viene a mancare e l'uomo eleva se stesso a creatore deiforme, la formazione del mondo può facilmente trasformarsi nella sua distruzione". Dunque nel discorso aux Bernardins vi è una forte provocazione a noi europei: quella diretta a far crescere il "monaco che è in noi". Il riferimento qui non è ovviamente allo stato di vita, tra i vari possibili per i christifideles; il riferimento è ad uno spirito, ad un'idea di esperienza, ad un percorso intellettuale, ad una metodologia di ricerca.
In quanto tale, l'invito sotteso al discorso parigino a far crescere "il monaco che è in noi" si rivolge non solo ai credenti, ma a tutti noi europei - che crocianamente non possiamo non dirci cristiani - come esperienza probabile, nel senso che si può provare, di una ricerca intellettuale aperta alla scoperta di Dio: quaerere Deum. In questo senso si coglie appieno l'invito, fatto dal Pontefice in altre occasioni, a sviluppare le esperienze personali e sociali nella prospettiva dell'etiamsi Deus daretur.
Centrale nell'esperienza monastica, che viene assunta a paradigma imitabile, è la parola. Nel senso che "le désir de Dieu, include l'amour des lettres, l'amore per la parola, il penetrare in tutte le sue dimensioni". E poiché "nella Parola biblica Dio è in cammino verso di noi e noi verso di Lui, bisogna imparare a penetrare nel segreto della lingua, a comprenderla nella sua struttura e nel suo modo di esprimersi". Parlando agli uomini, Dio si esprime in parole umane: dunque occorre affinare gli strumenti intellettuali e culturali per cogliere, dietro e dentro le parole umane, la Parola di Dio. In questo senso, fa notare Benedetto XVI, "il monastero serve alla eruditio, alla formazione e all'erudizione dell'uomo - una formazione con l'obbiettivo ultimo che l'uomo impari a servire Dio. Ma questo comporta proprio anche la formazione della ragione, l'erudizione, in base alla quale l'uomo impara a percepire, in mezzo alle parole, la Parola".
Ma il monachesimo può dirci ancora qualcosa? Può ancora oggi, nella nostra società tecnologicamente raffinata e disincantata dalla secolarizzazione, costituire per tutti, credenti ed in ricerca, un modello ancora proponibile? Può offrire ragioni di speranza e rimedi allo scetticismo, alla rassegnazione o al disimpegno?
Attraverso il paradigma del monachesimo cristiano Benedetto XVI indica una via possibile per l'oggi, con quanto c'è di diverso dal passato, ma anche con quanto c'è di analogo; con quanto, meglio, è proprio sempre, per tutti e dappertutto, della condizione umana. Una via possibile a chi è credente e a chi non lo è, dunque, giacché si tratta di non di mortificare l'intelligenza e la ragione, ma di stimolarle a cogliere la struttura interna dell'intera creazione, con le sue leggi intrinseche immesse da Dio creatore e ordinatore.
Ma il Papa mette in guardia contro due pericoli, che possono allontanare dal paradigma proposto. Il primo è quello dell'individualismo, dell'arbitrio individuale, che se dal punto di vista soggettivo non tiene conto della naturale struttura relazionale propria dell'uomo, dal punto di vista oggettivo non tiene conto del legame che deriva da una ragione che, purificata, conosce la verità oggettiva; così come ignora e prescinde dal legame che deriva dall'amore.
L'altro pericolo è quello del fondamentalismo. Si tratta di un pericolo rispetto al quale siamo più avvertiti e sensibili: ma, dobbiamo riconoscerlo, essenzialmente nella misura in cui riguarda l'esterno; cioè verso quelle manifestazioni che vengono da realtà culturali ed esperienze religiose estranee alla nostra tradizione. Per noi, oggi, il fondamentalismo coincide essenzialmente con l'islam.
In realtà anche nel nostro interno, dentro la nostra civiltà così come s'è storicamente sviluppata, nelle derive moderne del processo di secolarizzazione, a fronte di un apparente trionfo della tolleranza come virtù, cioè dell'affermarsi dell'idea relativistica della dignità di ogni posizione, si riscontra spesso la sostanza di nuove forme di fanatismo fondamentalista. In configurazioni nuove, sono riapparsi gli idola fori, nei cui confronti è richiesto in maniera intransigente l'omaggio cultuale.
Anche qui si ripropone quella tensione tra legame e libertà, che ha segnato l'esperienza monastica e ha plasmato profondamente la cultura occidentale, e che è data dal binomio "intelletto" ed "amore". "Sarebbe fatale - ammonisce conclusivamente Benedetto XVI -, se la cultura europea di oggi potesse comprendere la libertà solo come la mancanza totale di legami e con ciò favorisse inevitabilmente il fanatismo e l'arbitrio", perché "mancanza di legame e arbitrio non sono la libertà ma la sua distruzione".
(©L'Osservatore Romano - 28 gennaio 2011)