accostate a capolavori di Piero della Francesca e Raffaello
Testimoni della Bellezza incarnata
Sarà aperta dal 29 gennaio al 12 giugno a Forlì, nei Musei di San Domenico, la mostra "Melozzo da Forlì. L'umana bellezza tra Piero della Francesca e Raffaello". Pubblichiamo una presentazione scritta dal direttore dei Musei Vaticani che è curatore dell'esposizione.
di Antonio Paolucci
Questa è la terza mostra che, in età moderna, Forlì dedica al suo pittore eponimo. Perché per tutti, nella storia delle arti, Forlì e Melozzo si pronunciano insieme. La prima, rimasta celebre, è del 1938. Nasceva "sotto gli auspici del Duce" (così sta scritto in apertura di catalogo) e non c'è dubbio che a Mussolini avrà fatto piacere un evento che onorava la storia artistica della sua terra. Ciò non influì tuttavia - a parte l'inevitabile scotto pagato alla retorica del Ventennio e pur "nel profilo generale di una celebratività per certi aspetti stentorea" (Emiliani, 1994) - sul livello scientifico della mostra che è da considerare, per quegli anni, eccellente. Anche perché poteva contare sulla consulenza di Roberto Longhi professore a Bologna e ascoltatissimo mentore del Ministro della cultura Giuseppe Bottai, e sulla partecipazione al catalogo di storici dell'arte del livello di Cesare Gnudi e di Luisa Becherucci, all'epoca giovani ispettori di Soprintendenza. Anche Carlo Ludovico Ragghianti partecipò all'impresa. Il soprintendente di Bologna Calzecchi Onesti lo cita nella prefazione istituzionale al catalogo con parole di calorosa gratitudine.
Il limite della mostra del 1938 stava nel suo programmatico "panmelozzismo", quasi che il pittore forlivese avesse svolto, nel secolo XV, il ruolo di alfiere e ispiratore della storia artistica romagnola. Assunto politico-campanilistico indimostrato e indimostrabile. Prima di tutto perché il Melozzo vaticano - l'affresco del Platina e gli angeli musicanti dai Santi Apostoli - non c'era, sintomo ben significativo dei tesi rapporti, nel 1938, fra Papa Pio XI e Mussolini. Poi perché, nelle schede del catalogo, quella insostenibile teoria veniva minuziosamente ed efficacemente smontata dai giovani studiosi di formazione longhiana.
Il secondo appuntamento di Melozzo con la sua città è del 1994. La mostra, curata da Marina Foschi e da Luciana Prati, era dislocata fra l'Oratorio di San Sebastiano e Palazzo Albertini perché all'epoca gli spazi del San Domenico erano ancora di là da venire.
L'argomento era Melozzo in rapporto con Forlì nella seconda metà del XV secolo. Nel catalogo pubblicato per l'occasione (edizioni Leonardo) andranno ricordati il denso saggio di Andrea Emiliani e la ricostruzione biografica storica e stilistica dell'artista scritta dal mio compianto amico Stefano Tumidei; vera e propria monografia su Melozzo, un testo che, da allora, rimane per tutti noi fondamentale.
Ed eccoci all'ultimo incontro di Melozzo con la sua città. È la mostra curata da chi scrive con Daniele Benati e Mauro Natale per l'allestimento dello Studio Lucchi e Biserni, il catalogo di Silvana Editoriale, il coordinamento generale, come sempre efficientissimo e felicemente creativo, di Gianfranco Brunelli.
La ragione critica che governa il "nostro" Melozzo all'anno 2011, sta nel sottotitolo che campeggia nel catalogo e nei manifesti: "L'umana bellezza tra Piero della Francesca e Raffaello".
All'origine c'è una intuizione del giovane Gnudi affidata al catalogo del 1938: "Questa storicità delle figure di Melozzo, rispetto a quelle assolute e, senza tempo, di Piero, questo cercare una naturalezza ed immediatezza umana pur nell'impianto largo e solenne del maestro, definisce la personalità del forlivese".
Luca Pacioli nel suo Summa de arithmetica, geometria, proportioni e proporzionalità (1494) aveva dato di Melozzo la definizione teorematica e speculativa ("con libella e circino") destinata a durare nei secoli a venire. Roberto Longhi (1927) aveva visto nel forlivese il traduttore della prospettiva pierfrancescana in termini di alta retorica, di colorata scenografia.
Cesare Gnudi, da ultimo, aveva capito che "umana naturalezza" e "immediatezza" vivono nelle figure di Melozzo senza che ciò contraddica o diminuisca il suo genio di grande prospettico e di inventore (come a Loreto, come a Roma, come nella perduta Cappella Feo di Forlì) degli scenari celebrativi ed encomiastici più suggestivi del secolo.
Partendo da quella intuizione e organizzando la mostra in modo che i capolavori della Pinacoteca Vaticana ne fossero il fuoco concettuale e scenografico, abbiamo voluto presentare Melozzo come portatore e testimone della Bellezza incarnata.
C'è stata un'epoca nella storia delle arti - un'epoca che possiamo collocare fra la metà del XV secolo e i primi due decenni del XVI, fra Piero della Francesca a Sansepolcro e ad Arezzo e Raffaello nelle Stanze - che ha visto i supremi principi della Filosofia, dell'Etica, della Religione assumere le forme della umana venustà. La Bellezza che incarna l'idea ha da essere assoluta e allo stesso tempo naturale: così pensava Melozzo. La bellezza abita l'empireo dei supremi Veri e tuttavia è calata nella storia, è riconoscibile nelle donne e negli uomini che vivono sotto il cielo. Per questo è chiamata a essere definitiva, esemplare e proverbiale. E infatti ancora oggi si dice "bella come una Madonna di Raffaello", "bello come un angelo di Melozzo".
Per illustrare questo concetto, per dar forma a un fenomeno storico che si identifica con l'apice della stagione che i manuali chiamano del "rinascimento" e ne rappresenta il vero carattere distintivo, abbiamo chiamato in mostra, oltre a tutto il Melozzo conosciuto, Piero della Francesca (la Madonna di Senigallia da Urbino e il San Giuliano da Sansepolcro) gli Armigeri del Bramante di Brera, Botticelli dagli Uffizi, gli Antoniazzo più belli (la tavola di Montefalco), la Santa Eufemia di Mantegna da Capodimonte, Perugino rari e preziosi come il San Sebastiano Borghese, come la squisita e già nota agli studi Annunciazione di proprietà privata. Oltre, naturalmente, a Raffaello: il Raffaello dell'Angelo di Brescia, del San Sebastiano di Bergamo.
È una adunata di grandi artisti che in parte replica (con Piero monarcha de la pictura, con Mantegna, con Perugino, con Sandro Botticelli) la celebre lista stesa nel 1494 da Luca Pacioli.
Sono pittori, tutti, che negli stessi anni e sia pure nella diversità delle tendenze e degli stili, partecipano con Melozzo dello stesso obiettivo: far sì che l'umana bellezza appaia agli occhi di chi guarda, l'ombra di Dio sulla terra.
Pittore "ideologico" e teorematico al pari dell'Alberti e del Mantegna, Melozzo fu veramente pictor papalis come è chiamato nei documenti. La via romana e cattolica alla gloria della bellezza visibile - la via inaugurata nel 1450 dall'Angelico nella Cappella di Niccolò V e conclusa da Raffaello nelle Stanze, sintesi di ideologia sublime e di altissima propaganda - negli anni Settanta e Ottanta del Quattrocento ebbe in Melozzo da Forlì il suo massimo testimone. Credo che chiunque visiterà la mostra lo capirà.
Per questo ho voluto al San Domenico - ed è la prima volta che esce dal Vaticano - l'affresco del Platina, con la scena del grande intellettuale che riceve in ginocchio da Papa Sisto iv la carica di Prefetto della Biblioteca Apostolica. È l'alleanza fra la Chiesa e la Cultura che in quel celebre dipinto viene significata.
Tutto quello che avverrà dopo sotto il cielo di Roma - il Belvedere del Bramante e la cupola di San Pietro, Raffaello e Michelangelo, la Galleria di Annibale Carracci in Palazzo Farnese, i cieli barocchi di Pietro da Cortona, le fontane e gli obelischi nelle piazze, le biblioteche sterminate e i musei mirabili - tutto quello che ha fatto la visibile immagine d'Italia sotto il segno della Bellezza, ha in quell'affresco le sue premesse.
(©L'Osservatore Romano - 29 gennaio 2011)