mercoledì 12 gennaio 2011

«La formazione dei preti rovinata dai compromessi» di Andrea Camaiora


«La formazione dei preti rovinata dai compromessi»


di Andrea Camaiora

«In seminario l’ultimo testo che ho consigliato è stato “Il sigillo”, scritto dal cardinal Mauro Piacenza. L’ho trovato illuminante per chi intenda divenire sacerdote soprattutto perché totalmente in linea con il magistero del Santo Padre. Nel libro sono ribaditi i punti essenziali del sacerdozio, dall’identità sacerdotale alla formazione liturgica. Devo dire che i seminaristi sono corsi ad acquistarlo e l’hanno praticamente divorato». Don Franco Pagano, classe 1976, dal settembre 2010 è prorettore del seminario vescovile di Sarzana (La Spezia). È un giovane brillante e aperto con alle spalle quattordici anni intensi, iniziati nel 1996 quando entrò proprio nel seminario della diocesi di La Spezia-Sarzana-Brugnato per consacrarsi a Cristo. È sacerdote dal 28 settembre 2002 e da allora matura esperienze importanti: dopo gli studi teologici la specializzazione in Diritto Canonico alla Pontificia università Santa Croce, il servizio presso il tribunale di Genova, il ministero di Parroco, la responsabilità dell’ufficio catechistico della diocesi e del tribunale diocesano, l’insegnamento della religione cattolica nello stesso liceo classico dove aveva studiato da ragazzo, infine prefetto agli studi del seminario.

Reggere un seminario oggi è forse più complicato che mai per le tentazioni e la fragilità insite nella società moderna. Don Franco, come fa un giovane sacerdote ad affrontare queste sfide difficili nel momento in cui è chiamato a formare altri giovani?
«La mia esperienza è particolare: essendo da cinque anni all’interno del seminario conoscevo già bene questa realtà. Ora tuttavia è cambiato il mio ruolo e con esso le responsabilità che porto. Forse in questa diocesi è meno difficile svolgere il compito a cui sono stato chiamato perché siamo sempre stati fedeli al modello sacerdotale che la Chiesa insegna nei suoi documenti fondamentali. Non è un caso che il nostro Vescovo, monsignor Francesco Moraglia, abbia sottolineato per noi formatori l’importanza di partecipare ai momenti di incontro che si sono tenuti a Roma lungo l’anno sacerdotale e che hanno affrontato proprio le sollecitazioni che il Santo Padre ha ripetutamente rivolto a proposito dell’identità del sacerdote».

La Bussola Quotidiana, riportando la notizia di alcune fughe clamorose di preti, ha parlato recentemente di "emergenza educativa nei seminari". Come è possibile che dai seminari escano sacerdoti così fragili e poco convinti?
«Per cercare di dare una spiegazione dobbiamo pensare a cosa significa formarsi in un seminario. L’iter è lungo sei anni, nei quali i giovani approcciano gli ambiti tradizionali: la dimensione relazionale, spirituale, culturale e pastorale. Il riferimento, naturalmente, è e deve essere il magistero della Chiesa e almeno nella nostra diocesi ciò è un punto fermo. Occorre poi tenere conto di due questioni non secondarie: chi accede al seminario oggi è un giovane o un uomo del nostro tempo, che quindi porta con se il clima del nostro tempo con tutte le sue enormi insicurezze, ad esempio sul piano affettivo la prevalenza degli aspetti emozionali, e la tendenza a rifuggire i problemi e le sofferenze; si è persa la consapevolezza che per crescere è necessario sopportare la fatica della formazione che spesso richiede sacrifici. Una questione però riguarda i formatori.

Dobbiamo fare i conti con un’idea di sacerdote che non è sposata in modo univoco da tutti e ciò finisce col generare mostri. Nel momento in cui non si vive con piena fermezza l’identità sacerdotale o non la si insegna, può accadere tutto. C’è chi ad esempio tenta “sperimentazioni” e imposta la vita di seminario lasciando spazio ad uscite serali ed esperienze che portano a trascorrere spazi di tempo considerevoli fuori dal contesto della comunità educativa in situazioni non sempre così affini con la scelta sacerdotale; il seminarista è un giovane come gli altri, ma la sua vocazione lo porta a scegliere senza mezze misure di trascorrere gli anni di formazione a contatto con il Signore rinunciando consapevolmente e serenamente ad alcune esperienze “del mondo”. Cercare compromessi in tal senso può portare a confondere i giovani proprio sull’identità del sacerdote che è sempre chiamato a mettere il proprio rapporto con Dio al primo posto. Chi fa queste scelte si assume gravi responsabilità. Ci sono poi formatori – non è un mistero – che non si pongono in linea con il magistero del Papa, criticando apertamente ad esempio il modello da lui proposto del Santo Curato d’Ars perché giudicato antiquato e troppo devozionale; tra l’altro mi pare significativo che si tratta di un riferimento indicato non soltanto da Benedetto XVI ma anche da Giovanni XXIII e Giovani Paolo II!».

Occorre dunque una formazione più attinente all’insegnamento del Santo Padre e più rigorosa per affrontare una società complessa.
«Non solo. Finito il sesto anno non è tutto a posto e questa è la seconda grande questione. Dobbiamo prendere atto che il seminario offre comunque protezione, risposte, conforto. E dopo? Ci sono anche i primi anni di ministero sacerdotale. Lì il giovane parroco incontrerà i problemi confrontandosi con il mondo e con una società in cui i problemi si incontreranno in modo concreto. Oltre ad una solida formazione interiore durante gli anni di Seminario occorre costruire un progetto per i primi dieci anni di sacerdozio che vada oltre l’incontro periodico; questa è una sfida per i nostri vescovi. D’altra parte dietro le crisi sacerdotali, non si può che riconoscere una crisi di fede.

Chi lascia il sacerdozio o, come è accaduto recentemente, entra nella Fraternità di San Pio X, denuncia il suo “non star bene” del quale devono essere individuate con precisione le cause; ritengo tuttavia che la nostra risposta non può che essere il ripartire dai punti nevralgici e soprattutto dal cuore del discorso. Durante le festività natalizie ho riletto un testo che presenta spunti di straordinaria attualità da questo punto di vista, pur risalendo agli anni ‘70: si tratta di “Punti fermi” di von Balthasar. Tra questi punti fermi c’è l’adorazione e mi è venuto in mente come circa questo aspetto il Santo Padre ci presenti sistematicamente un esempio evidentissimo perché è solito privilegiare nei suoi incontri lo spazio per l’adorazione eucaristica, come a dire: voi siete venuti qui a incontrare me ma io insieme con voi ho bisogno di incontrare Qualcuno più importante di me. Il Papa indica così alla Chiesa la cura e la risposta più adeguata per i tempi moderni e al tempo stesso offre una proposta di fede completa, autentica, chiara, integrale anche rispetto ad una catechesi che nel tempo si è concentrata su aspetti marginali arrivando in alcuni casi a distogliersi da ciò che è deve essere centrale, cioè la fede in Cristo. Non si può che ripartire in ginocchio guardando al Signore e a Lui solo».