martedì 2 novembre 2010

Benedetto liturgo. Il primo volume dell’opera omnia di Ratzinger è dedicato al rito: di Paolo Rodari


Benedetto liturgo. Il primo volume dell’opera omnia di Ratzinger è dedicato al rito.

“Il primato è di Dio”, dice il Papa.

Le reazioni degli intellettuali

di Paolo Rodari

Che l’autore, ovvero Joseph Ratzinger, abbia deciso che il primo volume a essere pubblicato dei sedici che compongono la sua opera omnia sia quello dedicato agli scritti liturgici è un segnale chiaro. Significa porre inequivocabilmente in luce il primato di Dio, “la priorità assoluta del tema di Dio” ha scritto lo stesso Ratzinger nella prefazione al volume da pochi giorni disponibile nella versione italiana grazie alla Libreria editrice vaticana. “Prima di tutto Dio: questo ci dice iniziare con la liturgia. Là dove lo sguardo su Dio non è determinante, ogni altra cosa perde il suo orientamento”.

Pochi Pontefici, come Ratzinger, hanno avuto a cuore la questione del “giusto orientamento”. La giusta prospettiva con cui guardare le cose. Prima viene Dio e lo sguardo rivolto a lui, poi il resto. Poi il governo della chiesa, la macchina burocratica, l’affaccendarsi quotidiano. Non a caso Ratzinger è Benedetto: “Nihil operi Dei praeponatur – Nulla si anteponga all’ufficio divino”, dice la regola benedettina. Scrive ancora Ratzinger: “Non si tratta dell’opinione giusta su Dio, ma del modo giusto di glorificarlo, di rispondere a lui”.

Ecco, dunque, la priorità della liturgia, per la chiesa il mezzo, la strada, per entrare in rapporto col mistero. Come il Concilio Vaticano II aprì i lavori con lo “schema sulla sacra liturgia”, così Ratzinger, che nel Concilio fu a suo modo protagonista, pubblica la sua opera omnia esordendo con il volume sulla liturgia. Ratzinger il Papa della liturgia, si dovrebbe chiamare. Scrive: “La liturgia della chiesa è stata per me fin dall’infanzia la realtà centrale della mia vita e, alla scuola teologica di maestri come Schmaus, Söhngen, Pascher e Guardini (il teologo più citato nel volume), è diventata anche il centro del mio impegno teologico”.

Ogni gesto di Benedetto XVI è liturgia. Tutto in lui richiama oltre la sua persona, a Dio. E’ lui che aiuta, anche con la postura e il modo di porsi, a guardare oltre se stesso, a indirizzare l’orientamento di chi lo guarda. E anche le sue liturgie sono molto attente a questo aspetto: a chi e verso chi il popolo deve guardare. Non a caso, nelle liturgie papali, la croce è tornata nel mezzo dell’altare “per lasciarci condurre verso il Signore”. Dio, dunque, viene prima di tutto: un messaggio chiaro per credenti ma anche per chi non crede.

Saverio Vertone è un intellettuale non credente. “Sono completamente fuori dalla chiesa cattolica” dice. E ancora: “Se esiste una persona lontana dalla chiesa sono io. Tuttavia Ratzinger mi piace”. Perché? “Perché lotta contro la dissoluzione della chiesa cattolica”. E a lei interessa? “Mi interessa molto. Sono lontano dalla chiesa ma penso che la chiesa non debba cedere, non debba dissolversi, debba invece resistere, continuare a perpetrare i valori in cui crede. Per un non credente è una sicurezza. Un porto che comunque c’è. Un attracco. In questo senso guardo con interesse l’attenzione che questo Papa sta dando alla liturgia. Tornare al rispetto delle regole, favorire un orientamento comune di tutti i fedeli, ri-centralizzare lo sguardo, è un modo per cedere al dissolvimento. Ratzinger è sinonimo di regola, morale, identità. Ecco l’identità: con Ratzinger finalmente la chiesa non rinuncia alla sua identità”. In passato non era così? “Non sempre. Liturgicamente parlando Wojtyla non mi è mai piaciuto. Ma il vero cancro della cristianità sono le chiese protestanti. Sono volte al settarismo. Aperte al mondo sulla carta, ma in realtà chiuse in modo fondamentalista. Nelle loro liturgie hanno ammesso di tutto, discriminando chi segue le regole di sempre. Ratzinger è da ammirare perché dimostra la volontà di non seguire le altre confessioni cristiane nel loro fondamentalismo settario. Insomma: c’è un assolutismo del protestantesimo terrificante”. Saverio Vertone ha mai partecipato a una liturgia cattolica? “Sì, quando ero piccolo. Ma non ricordo molto. Ricordo l’uso della lingua latina, quello sì. La messa procedeva piena di strafalcioni: ‘Nunc et in hora mortis nostrae’ diventava ‘Nun catinora mortis nostrae’”.
 
Paolo Rodari
Fu lo scrittore torinese Guido Ceronetti a dire che tra fedeli e razionalisti le distanze non possono essere che incolmabili. In questo senso il tentativo post conciliare di colmare le distanze picconando la liturgia risulterebbe ridicolo. Meglio riguadagnare quanto di buono il passato ha insegnato: “La modernità autentica non accetta il senso della messa in blocco, in quanto liturgia sacrificale e metamorfosi magica di pane e vino in corpo di vittima immolata vivente: volendo restare fedeli a questo (se no è harakiri), è inutile cercare, con escamotage rituale di facciata, il consenso dei razionalisti. Nel profondo, le distanze restano incolmabili”. Un concetto, quest’ultimo, sul quale si sofferma oggi un altro scrittore, Giorgio Montefoschi. Si definisce “non credente ma praticante”. Per lui la fede è “cadere e poi rialzarsi”, già e non ancora insomma. Montefoschi dice di apprezzare l’attenzione del Papa per la liturgia: “Il Papa vuole il ritorno a canoni più austeri. E’ un ritorno che sento mio. Non mi ritrovo nelle approssimazioni liturgiche della nostra epoca. La musica ridotta a canzonette, ogni tipo d’ammiccamento verso il mondo. Le omelie troppo lunghe e che non dicono nulla quando basterebbe dire una cosa, una cosa soltanto, per colpire. Ma per fortuna ci sono ancora i gesuiti”. I gesuiti? “Mi capita sovente di andare alla chiesa del Gesù, in centro a Roma. Vige una regola: le omelie non devono durare più di sette minuti. In sette minuti si può dire tutto. Dilungarsi oltre è inutile. La liturgia dei gesuiti è semplice. Il sacrificio eucaristico si ri-attualizza, si ripete, e tutto è favorito dalla semplicità della liturgia e dalla concentrazione del celebrante. Perché cercare altro? Perché rovinare tutto con chitarre, canti, balli che non aiutano alcuna immersione nel mistero? Posso dirlo?”. Lo dica: “Questi innovatori del sacro dovrebbero essere presi a pedate nel sedere. Punto e basta”.

Montefoschi è un insonne. Spesso la notte gira per Roma cercando il primo caffè, il primo giornale. Una mattina presto andò alla chiesa di Sant’Anselmo sull’Aventino. “Era una fase della mia vita difficilissima. Entrai in chiesa. C’era molto buio. Mi sono seduto in fondo. Ero l’unico fedele presente. Attorno all’altare dodici monaci camaldolesi dicevano messa. Il Vangelo del giorno era Luca, il Magnificat. L’omelia durò un minito e mezzo: ‘Cari fratelli che belle queste parole, che bello magnificare il Signore. Ma questo deve avvenire tutti i giorni. Anche nel dolore e nella sofferenza”. Poi uno dei dodici, un diacono, è venuto in fondo alla chiesa e mi ha chiesto di unirsi a loro attorno all’altare per la benedizione finale. Non so come ha fatto a vedermi ma è venuto a prendermi. Ha visto che ero solo. Questa è liturgia. Poche parole che rimangono. Pochi gesti semplici che spiazzano. Come insegnano i monaci del monte Athos la liturgia è impoverirsi. Perché l’unica cosa che sappiamo del mistero è che non sappiamo nulla”.

Sono diversi gli intellettuali credenti e non credenti che dai tempi dei grandi rivolgimenti liturgici iniziati dopo il Vaticano II fino a oggi hanno speso parole, proclami, appelli per la liturgia. Negli anni Sessanta-Settanta Jeorge Luis Borges, Augusto Del Noce, Julien Green, Jacques Maritain, Eugenio Montale, Cristina Campo, Francois Mauriac, Salvatore Quasimodo, Elémire Zolla, Andrés Segovia, Agatha Christie, Graham Greene e molti altri fino al direttore del Times, William Rees-Mogg, chiesero che la chiesa non smarrisse se stessa debellando il proprio immenso patrimonio liturgico. Perché? Silvia Ronchey, bizantinista e storica del cristianesimo, dice: “L’attenzione per la liturgia è uno dei pochi aspetti positivi del pontificato di Benedetto XVI, che a torto, e credo anche contro le sue intenzioni, è presentato spesso come un grande teologo, mentre è principalmente un grande esperto di dogmatica, un watchdog della fede. In quanto tale, naturalmente tradizionalista e conservatore. Cosicché si potrebbe anche pensare che la sua passione per l’antica tradizione liturgica rispecchi solo un penchant simpaticamente reazionario. Ma io credo ci sia di più”. Che cosa? “Anzitutto una sensibilità estetica, o estetizzante, che mi pare indubbia, dalle famose babbucce all’amore per i velluti appassiti degli antichi paramenti. Ma anche un’autentica consapevolezza del fatto che la liturgia è l’interfaccia tra la spiritualità cristiana e il mondo. Ed è quindi importante, sia per la chiesa sia per il mondo, che quest’interfaccia sia correttamente impostata. Certo, una volta era più facile”. In che senso? “Nel senso che fino a qualche secolo fa tutto era permeato di liturgia. La vita era una foresta di simboli, ogni singolo atto, dell’individuo o della collettività, ne era tessuto. L’ordine della natura, la scansione delle stagioni, delle giornate, delle ore, degli eventi gioiosi o atroci della vita, era intrecciato all’ordine liturgico, e l’uno e l’altro ordine si davano reciprocamente significato. L’ordine liturgico, per gli uomini dei secoli antichi, insisteva sulla vita di tutti, non solo su quella dei credenti. Oggi non è più così, e nel vuoto di senso prodotto anche dal crollo delle fedi secolari, delle utopie politiche, la società ha mostrato il bisogno di quell’iniezione di senso al reale, e di quella catarsi del reale, data dai riti”.

In che modo si è mostrato questo bisogno? “Credo che Ratzinger, anche ma non solo in quanto esperto di dogma, abbia compreso l’urgenza di far riscoprire l’antica ritualità cristiana a un mondo affascinato da una pluralità di riti esotici, in genere orientali, spesso male assimilati e mal capiti, in ogni caso inutilmente lontani dalla cultura e dall’antropologia se non anche proprio dalla biologia dell’uomo occidentale. Ma il bisogno c’è, perché il rito in quanto tale, non solo quello cristiano, è una medicina per la psiche. E’ terapeutico per tutti, credenti e non credenti”.

Perché la liturgia è un aspetto della vita dei credenti importante per i non credenti? “La liturgia risponde a un bisogno recondito proprio di ogni essere umano. A domande che riguardano un mistero insito in noi. Che il mistero sia immanente o trascendente, che lo si identifichi con Dio o con l’inconscio, non è poi significativo ai fini della terapia. ‘Indubbiamente ci sono molte analogie tra Dio e l’inconscio’ ha scritto un grande maestro della psicanalisi, Adamo Vergine, nel suo libro appena uscito, intitolato appunto ‘Dio, l’inconscio, l’evoluzione’ (Franco Angeli). ‘E’ inconoscibile, rimane enigmatico, si rivela a noi attraverso segnali indiretti, che si introducono nella coscienza attraverso il nostro stesso vivere’”.

Che cosa ha allontanato il mondo contemporaneo dall’antica medicina della liturgia? “Gli effetti della riforma della liturgia dopo il Vaticano II hanno finito per tradire anzitutto le intenzioni, io credo, di quel Concilio, per disattendere questo bisogno. Che ancora oggi è tradito continuamente in ambito cattolico; molto meno in quello ortodosso”.

Dove la riforma della liturgia ha tradito la sua essenza terapeutica? “Anzitutto nella soppressione dell’uso del latino. Il latino non è un semplice mantra. Non si tratta solo del fatto che tutto ciò che è misterioso affascina. No, anzi, il fatto è che il latino, nella sua strepitosa sinteticità, ha in sé la capacità di comunicare qualcosa comunque, a prescindere dalla sua comprensione completa, letterale, grammaticale. E’ profondamente consonante con le nostre radici, fa risuonare qualcosa che abbiamo dentro: una risonanza antica, ancestrale, trasmessaci forse dagli avi, forse da ricordi infantili, comunque arcana e rivelatrice”.

C’è dunque un elemento di memoria collettiva che emerge ogni volta che ci accostiamo a questa lingua nella liturgia? “Sì, il latino è una lingua liturgica per eccellenza, già nelle sue espressioni pagane, pensiamo al Pervigilium Veneris, citato da Eliot, o anche ai Carmina Docta di Catullo. Ma la liturgia latina cristiana, come le traduzioni scritturali di san Girolamo, sono a mio avviso il vertice della lingua latina. Non è un caso se Oscar Wilde sosteneva che il più bel latino mai scritto è quello dell’Apocalisse. Il latino è radicato in noi e noi in lui ci ritroviamo”.

Quindi, per paradosso, secondo lei i fedeli capirebbero meglio la liturgia in latino che in italiano? “Dopo il Vaticano II, l’uso delle lingue moderne ha fatto smarrire la strada, tra vecchiumi stilistici da un lato e problemi diplomatici dall’altro, non c’è nulla di più brutto della Bibbia Concordata: pur di mettere tutti d’accordo, il testo si svuota. E’ come quando si legge una poesia tradotta male: non ci si ritrova, tutto perde di valore. Certo, ci sono delle eccezioni. Il Salterio di Bose, ossia il Libro dei Salmi come è stato tradotto dai monaci di Bose e come nel loro monastero viene cantato, è celestiale. Ogni parola biblica va dritta al cuore, lo sconvolge. Perché la traduzione è filologicamente perfetta e insieme stilisticamente raffinatissima: il risultato è una semplicità che emula, e supera, quella del latino. A questo probabilmente mirava il Vaticano II. Ma era un’aspirazione, paradossalmente, troppo elitaria. La liturgia di Bose, con il suo Salterio, è un unicum. Non ne conosco altri”. Dunque, è tutto un fatto linguistico? “No. Occorrerebbe anche parlare della musica. Lasciando da parte casi estremi imbarazzanti, ma diffusi, come le messe beat-rock-etno-funky, nessuna musica contemporanea riesce a eguagliare la musica sacra antica, dal gregoriano a Palestrina al Concerto di Natale di Corelli e così via. Mai la parola sacra è stata così indelebilmente e universalmente capace di imprimersi in tutti gli ascoltatori, di nuovo, credenti e non credenti, come quando è stata messa in musica dai grandi maestri di cui la chiesa romana prima della sua decadenza era committente e mecenate. E abbiamo parlato fin qui solo della dimensione uditiva. C’è ovviamente, altrettanto grande e potente, quella visiva”. Cioè? “Gli abiti, i paramenti, gli addobbi, le scelta dei materiali e dei colori, la sapienza nell’associarli ai gesti, la loro armonia e teatralità, senza menzionare lo splendore artistico e architettonico degli scenari. E c’è la dimensione olfattiva, assolutamente da non sottovalutare: non parlo solo degli incensi, ma anche e soprattutto dei profumi dei fiori, della scelta dei ramoscelli e delle erbe e delle specie di piante da associare, nel calendario naturale, a quello liturgico, la loro antichissima e costante simbologia. Insieme ai colori, i loro profumi penetranti, evocativi, permeavano di metafore liturgiche l’intera vita, e l’intera liturgia di metafore esistenziali. Tutto questo insieme è liturgia, un’eredità unica per chi è nella chiesa, ma anche per chi dalla chiesa è lontanissimo”. 2 novembre 2010.

Pubblicato sul Foglio sabato 30 ottobre 2010